Di fronte alle manifestazioni pro-Palestina nei Paesi islamici, che spesso sconfinano nell’apologia di Hamas, possiamo prendere partito a cuor leggero, condannando la parzialità di una mobilitazione che ignora le ragioni di Israele. Ma quando dobbiamo decidere come schierarci, anche solo intellettualmente, nelle dinamiche che si agitano anche in Italia, le cose si fanno molto più difficili.
Da alcuni sabati assistiamo a marce contrapposte che esprimono con toni diversi e uguale unilateralismo solidarietà agli ebrei o agli arabi. Registriamo esecrabili episodi di antisemitismo e mobilitazione nelle università a favore degli abitanti di Gaza e contro la durezza dell’azione decisa da Netanyahu. Nei talk show vediamo furori poco argomentati da una parte e dall’altra, che forse non incendiano più gli animi di un pubblico ormai abituato alle risse da sa-lotto tv ma allontanano ancor più da una comprensione razionale della situazione. Non si può negare che da italiani, europei e occidentali siamo chiamati a muoverci su uno stretto crinale politico, dove ogni passo laterale può avere significative ricadute.
Non vuole dire stare pilatescamente nel mezzo, ma avere almeno ben presente il dilemma che abbiamo davanti. Eccolo in sintesi, prima di provare qualche considerazione, necessariamente non conclusiva. Nella guerra in corso, di lunga durata per un verso, ma avviata in quest’ultimo spezzone dall’eccidio a sangue freddo compiuto dai fondamentalisti su civili inermi e proseguita con i martellanti bombardamenti e incursioni israeliani nella Striscia che uccidono, anche se non intenzionalmente, civili ugualmente inermi, sorgono due domande le cui risposte sembrano di difficile conciliazione.
È giusto, è opportuno sostenere comunque Israele a rischio di dimenticare i palestinesi, a fronte delle ragioni umanitarie che chiedono di considerare le migliaia di persone uccise nella pur legittima azione militare di difesa messa in campo da Tel Aviv? C’è un diritto a criticare Israele e sostenere i palestinesi – ed è opportuno farlo – quando è forte il rischio di alimentare i mai del tutto sopiti sentimenti di ostilità preconcetta verso lo Stato ebraico (che non pochi vogliono addirittura cancellare dalle mappe) e tutti gli ebrei in ogni parte del mondo (con l’incubo di nuove persecuzioni)? Come si vede dalle domande, ci sono due ordini di ragioni da valutare. Uno di principio, legato a motivazioni che si rifanno all’etica e al diritto.
E uno di responsabilità, connesso alla situazione e alle conseguenze contingenti delle nostre scelte, al di là delle intenzioni dirette. Si possono criticare le politiche di un governo. Anzi, la critica si deve esercitare con sensatezza verso qualunque fenomeno umano. Si tratta di un modo in cui possiamo provare a migliorarlo. Nessuno sa sempre la cosa giusta da fare, le indicazioni degli altri lo possono aiutare. È il perché le dittature, al di là dei loro crimini, falliscono: non ascoltano nessuno. In questo senso, l’offensiva nella Striscia di Gaza condotta dall’esercito di Tel Aviv merita un attento scrutinio.
Ma si deve evitare di associare ai rilievi doverosi la pericolosa sottolineatura di una “diversità” di qualche sorta relativa allo Stato ebraico. Certo, esistono anche l’islamofobia e l’anti-arabismo, ma hanno nelle nostre società una diffusione per fortuna minore. L’antisemitismo è una pianta cattiva i cui semi restano nascosti, sempre pronti a produrre spaventosi frutti avvelenati. E di questa realtà dobbiamo tenere conto, e in essa farci responsabili attori per contrastare ogni rigurgito di discriminazione e di violenza. Quindi, nessuna giustificazione del terrorismo di Hamas e del suo agghiacciante pogrom del 7 ottobre. E il riconoscimento che Israele era legittimato a reagire: non dimentichiamo che i razzi verso il Nord del Paese continuano a essere lanciati ancora oggi. Diverso è l’atteggiamento da tenere verso un’azione che non pare sufficientemente attenta (ed è dire poco) all’incolumità della popolazione.
Non è accettabile bombardare ospedali, ambulanze, scuole, campi profughi, se pure c’è il sospetto che vi si nascondano combattenti. Si tratta, quando accertato, di un crimine di guerra, da denunciare e sanzionare. Soprattutto se le vittime sono davvero oltre diecimila, con migliaia di minorenni tra di esse. Lo Stato di Israele resta però una democrazia - che può sbagliare –, ed è comprensibile che l’Italia con i suoi rappresentanti politici si schieri con Tel Aviv, senza però desistere dal cercare di promuovere proporzionalità e vie di pace. Ciascun cittadino è invece chiamato a percorrere in coscienza quel crinale di cui si diceva, sapendo che è inevitabile sbilanciarsi su un versante o sull’altro, per le più diverse ragioni. Con l’avvertenza che rispondere “sì” a una delle domande sopracitate e “no” all’altra rischia di innescare effetti iniqui e pericolosi. La tragedia della guerra chiede impegno, ma non tollera cecità.
È impossibile costruire convivenza se non si garantisce l’esistenza protetta di Israele e non si dà una prospettiva di futuro dignitoso ai palestinesi; se non si reprime ogni intolleranza etnico-religiosa e non si evita di dare occasioni di risentimento duraturo (ricordiamo come è narrato il conflitto in molte zone del mondo), innesco di altra violenza. C’è infine il compito dei media, che è documentare i fatti e analizzarli con obiettività, per permettere a tutti di farsi un’idea quanto più corretta possibile prima di schierarsi.