Aprire un nuovo fronte in Libano, la tentazione di Netanyahu
venerdì 21 giugno 2024

Dal 7 ottobre scorso, cioè da quando i terroristi di Hamas compirono la strage di civili in Israele, provocando la reazione dello Stato ebraico, aleggia su tutta la regione lo spettro di una guerra più ampia. Così ampia da coinvolgere non solo attori e potenze regionali ma anche Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito. Fin da quel giorno, infatti, la partita è stata doppia: militare e politica. Il primo aspetto: reagendo all’attacco di Hamas nel modo che abbiamo finora visto, in quasi nove mesi Israele non solo ha provocato quasi quarantamila vittime tra i civili palestinesi, nella Striscia e in Cisgiordania, ma in buona sostanza ha anche mancato l’obiettivo militare che si era data: annichilire la forza armata del movimento islamista e sradicarla da Gaza. Nello stesso tempo l’Iran, principale sponsor di Hamas, ha continuato a colpire Israele e i suoi alleati attraverso gli Houthi dello Yemen, che tengono in ostaggio il traffico navale nel Mar Rosso, e l’Hezbollah del Libano, che bersaglia senza sosta la Galilea israeliana. Come intermezzo, gli attacchi dimostrativi che Iran e Israele si sono reciprocamente portati.

Dal punto di vista politico, il mancato successo nella Striscia e il suo costo in termini di vite umane hanno man mano isolato Israele, fino a mettere a dura prova i rapporti con l’alleato di sempre, gli Usa. E per contro hanno esaltato la strategia di logoramento a distanza scelta dall’Iran: non è un caso se Alì Khamenei, la Guida Suprema, ha sempre tirato il freno agli spiriti bellicosi dei suoi generali e delle loro milizie.

I due aspetti, quello politico e quello militare, rischiano di ricongiungersi ora a proposito del Libano.

Attaccando il Paese confinante, Israele potrebbe perseguire un obiettivo militare (difendere il proprio territorio e la propria gente dai missili di Hezbollah) e insieme uno politico: uscire dal vicolo cieco in cui si è infilato, stanare l’Iran che si vedrebbe in qualche modo costretto a soccorrere i suoi protetti libanesi, richiamare intorno a sé Usa, Francia e Regno Unito che di certo non farebbero mancare a Netanyahu ogni forma di appoggio, soprattutto di fronte a un coinvolgimento iraniano. Benjamin Netanyahu, da questo punto di vista, sa di rischiare poco. In caso di spedizione militare, nessuno correrà in soccorso di Hezbollah e dell’Iran. Non in Libano, dove le altre componenti etnico-religiose odiano l’idea di un’ennesima guerra e dove Hezbollah ha molti nemici e un insidioso ostacolo nell’esercito nazionale: il generale Joseph Aoun, comandante delle forze armate, ha appena compiuto un lungo giro di consultazioni negli Usa. Né fuori dal Libano: la Siria (ancor più nella versione protettorato russo) non si muoverà, la Turchia nemmeno e i Paesi musulmani sunniti staranno a guardare, forse soddisfatti.

Dal punto di vista politico nazionale e personale, quindi, non v’è dubbio che Netanyahu abbia l’interesse ad attaccare Hezbollah e il Libano. Ma dal punto di vista militare? Pur ammettendo che Israele possa ricevere aiuti dai Paesi alleati, resta il fatto che le sue truppe sono già impegnate a Sud, nella Striscia di Gaza, con i risultati che sappiamo. E un contingente ancora più massiccio dovrebbe essere impiegato in Libano, dove l’avversario è molto più forte e meglio armato di Hamas. Gli stragisti del 7 ottobre, inoltre, dovettero uscire dalla Striscia per colpire gli israeliani mentre Hezbollah dispone di armi capaci di colpire a distanza, come hanno dimostrato i bombardamenti sul porto di Haifa, che dista 50 chilometri dal confine con il Libano. C’è inoltre il precedente del 2006, della cosiddetta “seconda guerra del Libano” durata 34 giorni. Israele si intestò la vittoria ma il premier Ehud Olmert fu duramente contestato e il capo di stato maggiore Dan Halutz costretto alle dimissioni. Si può quindi vincere dal punto di vista militare e perdere da quello politico. E Netanyahu, già pericolante di suo in un Israele spaccato dai nove mesi di Gaza, non può certo trascurare questa ipotesi.

Resta quindi una considerazione, banale ma inevitabile: al di là dei fondamentali aspetti etici, le guerre non sono più da tempo nemmeno uno strumento di soluzione (anche violenta e prevaricatrice) dei problemi. Controllare negli ultimi vent’anni, dall’Iraq alla Siria, dalla Libia allo Yemen, per non parlare di Russia e Ucraina, per credere. E questa terza guerra del Libano, se per disgrazia dovesse avvenire, non farà eccezione.

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