Partner, amici, alleati: senza tanti giri di parole, il presidente Barack Obama ha ricordato al neo-premier italiano il senso più vero della relazione transatlantica. La chance di una crescita nella comune prosperità, tra popoli che da decenni condividono gli stessi valori politici e le stesse istituzioni democratiche e che si sono reciprocamente promessi di difendere quella prosperità e quei valori attraverso un’alleanza politica e militare. Nel suo viaggio europeo il presidente americano ha ribadito ancora una volta la centralità del vecchio continente per gli Stati Uniti. Un discorso che sarebbe suonato come musica alle orecchie europee appena pochi mesi or sono, e che oggi invece contiene un esplicito monito a non ridurre ulteriormente i già risicatissimi budget della difesa.
Si tratta di un problema non solo italiano, evidentemente, ma che il presidente del Consiglio non può sperare di eludere semplicemente ricordando che le spese della difesa nazionale sono in linea con quelle europee. Perché è tutta l’Europa che spende troppo poco per la sicurezza comune. Un atteggiamento poco lungimirante, quando proprio l’Europa è il continente che si affaccia sui teatri più caldi del momento: dall’Ucraina al Levante al Nord Africa. Pur compiaciuto di rappresentare il "modello ispiratore" del premier italiano e sinceramente simpatetico nei confronti del suo tentativo di rinnovare l’Italia e spingere le istituzioni europee a perseguire non solo l’austerity dei conti pubblici, Obama ha ricordato al suo interlocutore come in politica internazionale "non esistano pasti gratis", per dirla con il celebre adagio americano. Continuando a tagliare i propri bilanci, l’Italia e l’Europa del resto rischiano non solo di distruggere un comparto di assoluta eccellenza come quel dell’industria della difesa, ma anche di rendere ancora più gravosa la situazione economica ed occupazionale.
Dal punto di vista americano è francamente difficile comprendere perché mentre gli Stati Uniti spendono il 3% del proprio Pil per la sicurezza – una parte cospicua del quale investito in Europa – gli alleati europei, il cui Pil è analogo a quello americano, spendano un terzo di quella cifra e vogliano persino ridurre il proprio impegno. Non è il momento, ha ricordato Obama, che oltretutto ha espresso in tutte le occasioni l’apprezzamento per il contributo italiano alle missioni militari cui il nostro Paese partecipa, dall’Afghanistan al Libano. A fronte di una richiesta di un investimento più significativo per la sicurezza comune, il presidente ha ricordato come "Transatlantia" costituisca ancora oggi una della aree economiche e finanziarie maggiormente integrate, con un livello di partecipazioni societarie incrociate che non ha eguali al mondo, di cui il gigante automobilistico Fiat-General Motors rappresenta un esempio di prima grandezza. Ma non è tanto e solo la strada percorsa insieme che conta sottolineare, quanto semmai le grandi opportunità che ancora si dischiudono davanti a noi, alle quali la Transatlantic Trade and Investments Partnership vorrebbe fornire una cornice capace di trasformarle in fattori effettivi di crescita e sviluppo economico.
Questo strumento occupava già un posto importante nelle conversazioni euro-atlantiche dei mesi scorsi. Oggi il suo ruolo non può che essere destinato a diventare ancora più strategico, alla luce della crisi ucraina e della tensione crescente provocata dall’invasione russa della Crimea, e di fronte alla necessità europea di non dipendere in maniera così assoluta per i propri approvvigionamenti energetici da un Paese pronto a utilizzare la forza delle armi per sopperire alla debolezza delle argomentazioni. Anche in questo caso si tratta di un discorso che riguarda l’Europa nel suo complesso e l’Italia in particolare, che con la Germania è tra i migliori clienti di Gazprom. È però probabilmente sul campo dei valori che il discorso tra il premier e il presidente ha trovato la maggiore sintonia.
Il tema della lotta alla diseguaglianza – per una nuova armonia da ricreare – e del rapporto tra democrazia politica ed economia di mercato è qualcosa che sta a cuore a entrambi. Tanto l’agenda dell’uno quanto quella dell’altro hanno messo al centro, in tempi e con stili almeno in parte diversi, la sfida di ridare speranza ai propri cittadini: quelli attoniti di fronte all’esordio selvaggio della crisi finanziaria nell’America che elesse e confermò Obama; quelli stanchi e impauriti dell’Italia che vede in Renzi "l’ultima spiaggia". Il primo si avvia al termine del suo secondo mandato e di una carriera politica durante la quale, forse, aveva sperato di poter cambiare più cose di quanto non gli sia riuscito. Il secondo è all’inizio di un percorso che, come spesso ricorda, potrebbe finire prestissimo se non riuscirà a cambiare il Paese insieme al sistema politico. Sono stati entrambi, per i rispettivi establishment politici, tutto sommato due outsider (seppure di successo) e forse anche per questo è scattata quella corrente di reciproca simpatia che appare più schietta, meno "convenzionale" di quella normalmente esibita tra gli inquilini della Casa Bianca e quelli di Palazzo Chigi. Obama appare d’altronde sinceramente interessato al successo di Renzi, anche in chiave europea, per avere finalmente una sponda al di qua dell’Atlantico più ricettiva dei suoi ammonimenti affinché l’Europa pensi anche a crescere, oltre che ad avere i conti in ordine.
Al nostro premier l’incontro con il presidente americano ha anche offerto una straordinaria opportunità per approfondire quei temi della grande politica internazionale ai quali, fino a qualche settimana fa, aveva mostrato poca attenzione e praticamente nessuna osservazione degna di nota. Anche in questo, il percorso dei due potrebbe apparire simile. Prima di arrivare alla Casa Bianca neppure Barack Obama si era distinto per particolari competenze sulle questioni di politica internazionale (e i suoi detrattori sostengono che ancora oggi il bilancio sia non straordinario), che del resto raramente fanno vincere le elezioni, benché spesso rendano memorabile una presidenza. Vedremo nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, quanto la relazione cordiale e la stima reciproca sapranno tradursi in una convergenza sulle questioni di politica estera più urgenti. A cominciare da quella ucraina, che è tutt’altro che in via di risoluzione.
Proprio la capacità di mostrare fermezza, determinazione e disponibilità al dialogo con Putin costituirà un primo "torture test" per la sintonia tra i due. Non può infatti sfuggire che la posizione italiana è fin qui apparsa meno salda di quanto sarebbe stato auspicabile agli occhi di Washington, e non solo. Sarebbe però davvero ingeneroso chiudere queste riflessioni senza sottolineare l’ottimo stato complessivo delle relazioni italo-americane, passate sostanzialmente indenni persino attraverso le fasi più oscure dello scandalo spionistico-informatico che a più riprese ha messo tanto in difficoltà gli Stati Uniti. Si tratta di un patrimonio costruito attraverso le generazioni, da una lunga serie di premier, da De Gasperi ad Andreotti fino a Craxi, su su fino a quelli della cosiddetta "seconda Repubblica": una vera dote politica che ora sta a Matteo Renzi saper tutelare, accrescere e impiegare, coniugando audacia e prudenza.