Conosco da molti decenni, per studio e per impegno, il ministero dell’Interno. Non solo il Dipartimento della Pubblica sicurezza, ma anche alcuni dei settori delicati dell’Amministrazione civile. È sempre utile ricordare che in Italia non è il dicastero dell’ordine pubblico inteso come mera 'forza'. Si tratta di una branca dello Stato-apparato che sovrintende alla continuità delle funzioni centrali e periferiche della Repubblica: anche con l’arte della mediazione sociale e con lo scopo principale della composizione dei conflitti, collocandosi sempre come terzo imparziale. Mentre ci si accinge a cambiare passo, bisogna registrare che in quest’ultimo anno l’immagine dell’Interno è cambiata ed è stata involgarita. Purtroppo nell’acquiescenza di tanti.
Un esempio per tutti, oltre a quello pessimo nella vicenda della nave militare Diciotti, che se i marinai della Guardia costiera non avessero mostrato fermezza avrebbe provocato un danno enorme alla credibilità dell’Italia. Mi riferisco a un episodio che è riduttivo qualificare solo come 'simbolico': lo sfregio all’Inno di Mameli. Che il ministro dell’Interno Salvini, nei panni di uno strano 'dj', ha fatto e lasciato intonare in spiaggia da 'cubiste' in costume 'panterato' e ritmare da personaggi da palestra, più simili a tronisti di reality show che a comuni bagnanti dei lidi nostrani.
Pochi, anche al Viminale, hanno preso le distanze da quello spettacolo. Diversamente da quanto accaduto negli ambienti della Difesa, dai quali si sono levate voci di censura nette e dure. Un dettaglio? Come dire, sovrastrutturale? Non proprio. La tolleranza riguardava un contegno che evocava indimenticati gesti di banalizzazione e oltraggio ai segni 'italiani' già di Bossi e di Borghezio (che interessarono anche la magistratura).
Quando mi recavo di buon mattino per insegnare alla Scuola per ispettori di polizia a Nettuno, a volte arrivavo mentre era in corso il rito dell’alzabandiera. Non un vuota cerimonia: quegli allievi si ponevano in esemplare raccoglimento davanti al simbolo della loro funzione, della dignità del lavoro che si preparavano a svolgere. Formandosi come quadri della Polizia che «nello Stato democratico è al servizio del cittadino». Come recitava il motto che negli anni Sessanta Angelo Vicari, all’epoca capo della Polizia, fece esporre in tutte le sedi. A ricordare - fino a poco tempo fa - il cambiamento avvenuto con la Repubblica e con la Costituzione. Parole importanti, di segno etico. Di altra pregnanza rispetto a quelle che inopinatamente - e anche qui senza critiche - le hanno sostituite. Come i refrain poveri di contenuto quali «Esserci sempre» e lo stesso «Insieme tra la gente». Anche la compagnia che distribuisce elettricità potrebbe dichiarare «esserci sempre», e una catena di supermercati può per rivendicare di essere «insieme tra la gente». Le parole muovono convinzioni, radicando un senso comune e si ripercuotono nei comportamenti. Se alla cultura del servizio subentra la retorica, portata addirittura verso approdi beceri e offensivi. Uno slittamento avvenuto, di nuovo, con troppe acquiescenze. E senza nemmeno avvertire le conseguenze pratiche e organizzative della squalificazione di un punto fermo - il monopolio statale assoluto della forza - con il messaggio politico secondo cui 'la difesa è sempre legittima'. Ci sono poi, e non per ultime, le maledizioni che - nei suoi giri senza fine per comizi e incontri, ma istituzionalmente dal Viminale - il ministro ha lanciato incessantemente verso rifugiati, richiedenti asilo, immigrati e contro organizzazioni e opere della solidarietà e del volontariato.
Tra i tecnici della sicurezza pubblica quanti hanno colto le conseguenze operative di quei messaggi, sì, proprio per la disciplina delle forze di polizia? Qualcuno si è reso conto che quel modello muscolare, tronfio, con tanto di esibita felpa con il corredo dei colori d’istituto della Polizia, incoraggiava comportamenti aggressivi degli agenti? Che riduceva l’autorevolezza dei quadri e dei funzionari, chiamati a dirigere, a comandare con saggezza e misura nei momenti difficili, uomini e donne in divisa? Non si era allarmati per come i messaggi del ministro suonavano di rinforzo alla subcultura di gruppo gregario, che si rigonfia in modo spontaneo, da sempre, in alcune caserme? E che proprio l’alta funzione di quadri, funzionari e ufficiali ha l’obbligo di prevenire: con la 'medicina' più appropriata, e cioè con il richiamo alla dignità della funzione, ai valori del servizio, alle idealità della Repubblica. Ovvero a tutto quello che dà contenuto al rigore della disciplina che si richiede a quanti si sono visti attribuito l’esercizio del monopolio pubblico della sicurezza. Ora il sipario è calato, ma non ci si può proprio esonerare dalla riflessione. Anche perché non è sempre vero che 'indietro non si torna'. Qualche volta indietro bisogna saper andare per andare davvero avanti, ed è indispensabile farlo.
Sociologo, docente negli istituti di formazione delle Forze di polizia statali e locali