Ventimila a ventimila. Se guardiamo al "contatore" della gente scesa nelle strade di Milano a distanza di 48 ore – per protestare contro l’Expo, il 1° maggio, per reagire agli eccessi di quel dissenso, domenica – si può parlare di pareggio. Ma i numeri esprimono realtà del tutto differenti, come impatto sull’opinione pubblica, prospettive d’azione, e anche senso della realtà. Vogliamo essere chiari, anche per evitare taluni atteggiamenti liquidatori nei confronti delle critiche all’esposizione e insieme verso certa speculare retorica che accompagna la bella reazione dei milanesi: non si tratta oggi di mettere una manifestazione contro l’altra, anche se la violenza espressa dalle tute nere ha stritolato pure le tesi dei dissenzienti, riducendoli in un imbarazzato silenzio. Le istanze portate in piazza dal più che variegato movimento no-Expo pongono nella loro sostanza domande alle quali è necessario che i sei mesi della kermesse milanese rispondano con i fatti. È vero, come protestano i detrattori, che si tratta di un evento pletorico, fine a se stesso, che nasconde dietro le luci abbaglianti del circo globale (Milano le conosce bene, avendo ospitato per decenni una Fiera campionaria, allegra e leggera, della quale in fondo si sente sempre un po’ orfana) l’assenza di soluzioni concrete per i troppi squilibri alimentari del nostro acciaccato pianeta? Oppure è meglio guardare in faccia, con il realismo dei milanesi allergici alle piazze, i problemi della fame e del sottosviluppo chiedendosi cosa fare per alleviarli (ma non domani, adesso)? Il Papa ha mostrato il metodo, e sinora non s’è udita una parola più pressante: ricordarsi dei volti di chi non ha cibo né dignità, averli davanti agli occhi da quando si pianifica la visita ai padiglioni al momento in cui si esce dall’area alle porte della città con gli occhi pieni di sorprese. Solo così possono cambiare lo sguardo e il futuro, il nostro e quello della moltitudine in attesa che se nel mondo benestante si auspica un nuovo assetto per nutrire il pianeta la pancia cui si pensa non sia solo quella di chi è già sazio. Ma sguardo e futuro – i nostri – stanno evidentemente già cambiando in qualche modo misterioso e interessante se Milano si mostra in grado di rispondere con prontezza e dignità a un’offesa percepita quasi come una profanazione, e lo fa con un’onda collettiva di ripulsa, una risposta che offre il senso di un’appartenenza a uno spazio comune e condiviso del quale ci si sente gelosi. Da quanto tempo i milanesi non si sentivano accomunati dalla certezza di voler bene alla propria città, troppo spesso da loro stessi usata come fosse un pratico contenitore da sagomare sugli andirivieni individuali per lavoro o per svago, ma non dotato di un’anima, una bellezza, una storia tutte sue, da rispettare e delle quali sentirsi affidatari e non padroni? Le scorrerie dei black bloc hanno catalizzato una reazione sociale nella quale si percepisce il sapore di una ritrovata coscienza personale e comunitaria, al netto di usi politici e amnesie degli scandalizzati di oggi mai allarmati fino a ieri dei ripetuti segnali d’irrequietezza degli antagonismi urbani con i quali s’è mescolata la ribollente marea nera. Chi vive o lavora in questa città che pare vivere sempre dimentica di se stessa sa bene, per aver respirato l’aria nuova di questi sorprendenti giorni, che il risveglio dei milanesi è ben più ampio dei ventimila scesi in piazza armati di spazzole e pennelli, mite arsenale che da solo sprofonda pietre e molotov nella preistoria della rivoluzione nichilista. Milano d’improvviso si è accorta di credere con tutte le sue forze che insieme si può costruire, mettere a nuovo, aggiustare, persino rinascere, e questo è tanto più chiaro trovandoci ad arrancare lungo l’estenuante via d’uscita dalla crisi che ha lavorato per farci ragionare e agire secondo progetti individuali di sopravvivenza. Dentro questo sfilacciamento dello spirito comunitario hanno creduto di poter pescare alimento per la loro aspra opera gruppi di contestazione radicale che, di colpo, si sono trovati invece di fronte il muro pulito di una città finalmente consapevole di sé come spazio umano, luogo di partecipazione al destino di tutti. Civitas, e non accampamento. Che questo sia accaduto mentre l’Expo inizia a dir la sua su come «nutrire» insieme un pianeta che ha anzitutto fame e sete di giustizia è solo il segno che non di un circo si tratta, ma di una provvidenziale sfida. Che i milanesi, intanto, hanno già raccolto.