Il genocidio degli armeni è da sempre il grande rimosso della società turca. Pronunciarne non si dice il nome (
Ermeni Soykirimi), ma il solo alludervi, il solo esitare dubbiosi di fronte alla pervicace negazione del massacro di almeno un milione e mezzo di armeni di religione cristiana (cui si aggiungano cilici, greci, caldei, siri e assiri, fino a toccare quasi i due milioni) perpetrato nella primavera del 1915 anche e soprattutto dai Giovani Turchi del Cup (Comitato dell’Unione e Progresso), equivale ancora oggi a mettersi contro la legge.Il grande massacro di un secolo fa s’incardina nella rovinosa dissoluzione dell’Impero ottomano e nella parallela nascita dello Stato-nazione che sarà poi la Turchia di Mustafa Kemal Atatürk. Uno Stato in cerca di un’identità e come spesso accade nelle grande trasformazioni geopolitiche, fortemente intollerante nei confronti delle minoranze etnico-religiose all’interno dei propri confini. Una sorta, come si è varie volte affermato, di
socialdarwinismo, dottrina che giustifica la selezione naturale e l’emarginazione dei più deboli come necessaria alla formazione delle società umane. E se è vero che formalmente il genocidio armeno fu condotto da quei Giovani Turchi ansiosi di superare il morente modello del sultanato e trasformare l’Anatolia in una monarchia costituzionale e moderna, è vero anche che assieme al laicismo esasperato con cui a partire dal 1923 Atatürk forgiò la Turchia postbellica trovò subito posto un negazionismo feroce nei confronti del genocidio armeno. Una grande rimozione da parte del governo kemalista, nutrito di orgoglio e nazionalismo, che insieme all’abolizione del califfato, del fez, del velo islamico per le donne e all’istituzione del suffragio universale, del sistema metrico decimale e dei caratteri latini aboliva, anzi cancellava del tutto la memoria di quel massacro infinito.
Cento anni dopo le cose non sono granché cambiate. Il codice penale turco all’articolo 301 prevede condanne e sanzioni per chi osa portare «vilipendio all’identità nazionale turca». Ne sa qualcosa il Premio Nobel Ohran Pamuk, che in un’intervista del 2005 affermò: «Noi turchi abbiamo ucciso 30mila curdi e un milione di armeni e nessuno, tranne me, in Turchia osa parlarne». Ora che lo ha fatto papa Francesco in spirito di conciliazione ma anche di severo monito nei confronti di tutti gli olocausti (dalla Shoah ai massacri staliniani, ai genocidi mediorientali e africani di questi anni) ad Ankara già si levano gli scudi, si richiamano ambasciatori e si grida alla discriminazione anti-islamica. Furbizia da bassa politica, che non riesce a celare l’incapacità di certa classe dirigente della Turchia moderna di fare i conti con quel passato, se non nascondendolo sotto il tappeto insieme alle proprie insicurezze.
Ed è questo anacronistico nazionalismo, questo malinteso senso dell’onore patrio (anche se l’articolo 301 da qualche anno è stato parzialmente emendato e ammorbidito) a tenere la Turchia eternamente sulla soglia dell’Europa senza mai oltrepassarla. A differenza della Germania, che con il passato ha fatto conti dolorosi e coraggiosi insieme, la Turchia – oggi di Erdogan – sembra aver scelto di proseguire sulla strada di una
damnatio memoriae che non giova ad alcuno. Peccato, per una così grande nazione dal profilo moderno e dalla formidabile crescita economica; una nazione formalmente democratica ma che da anni si è avvitata in una tentazione autoritaria per la quale il brutto e inquietante neologismo
democratura (una via di mezzo fra democrazia e dittatura, l’autore è il dissidente croato Predrag Matvejevic) si attaglia dolorosamente. Su questa china, resa scoscesa dalle lusinghe di un irreale sogno neo-ottomano, non pare esserci posto per la riconciliazione. Continuiamo, tenacemente, a sperare che non sia così.