Una serie di notizie degli ultimi giorni porta alla ribalta, se ancora ce ne fosse bisogno, la crescente centralità del Web per un numero sempre più elevato di persone, e per la totalità dei giovani. Non senza preoccupazioni, espresse talora con toni piuttosto allarmistici, che sollecitano l’urgenza di misure e azioni preventive e formative adeguate: dal Safe Internet Day 2013, ieri, la giornata voluta dalla Commissione europea dedicata alla sicurezza in rete dei ragazzi, al Rapporto sul Cyberbullismo commissionato da Save the Children, fino al progetto del Ministero dell’Istruzione «Generazioni connesse» per sensibilizzare i minori a un utilizzo consapevole di Internet e dei nuovi media. Intanto l’Istat registra i cambiamenti nei consumi, dove la crisi incide su tutto tranne che sugli smartphones, mentre in America il presidente Obama progetta un wi-fi gratuito
coast-to-coast per rendere universalmente accessibile il nuovo ambiente digitale. Questo mutamento di contesto, che è tutt’altro che una moda passeggera, sollecita almeno una considerazione, una preoccupazione e una cautela. La considerazione è che, per le giovani generazioni, i nuovi media non sono strumenti. La rete non è uno spazio "altro" ma l’estensione dei territori relazionali quotidiani. Dai quali non si entra e non si esce, ma che sono sempre presenti come una quarta dimensione dell’esistenza. Parlare di "generazioni connesse" è quasi pleonastico. Questo spiega anche perché la crisi non ha colpito gli smartphones, che non sono vissuti come beni di consumo, bensì come "beni di relazione". Non strumenti, ma estensioni di sé e cordone ombelicale con la rete, vitale, delle proprie relazioni. Le preoccupazioni sono legittime: in quanto ambiente sociale, anche la rete ha le sue insidie, che forse, però, vanno messe a fuoco con maggiore chiarezza e minore emotività. Certamente i rischi ci sono; certamente i giovani hanno poca consapevolezza degli effetti di ciò che scrivono, postano, pubblicano in rete e di come queste informazioni siano accessibili, archiviabili, conservabili e utilizzabili a scopi diversi. Aumentare il grado di consapevolezza è opportuno e doveroso. Ma i rischi più gravi non sono tanto quelli più comunemente paventati (l’abboccamento a scopo sessuale da parte di singoli malintenzionati) quanto la raccolta di dati che possono essere aggregati, rielaborati e venduti per la produzione di comunicazioni pubblicitarie mirate e subdole o per forme di controllo sociale o censura politica. La rete è un gigantesco sistema di produzione di dati, a cui ciascuno di noi collabora spontaneamente, e quello dei
Big data è uno dei temi più caldi, e più interessanti per il businnes e la politica del futuro. Il lupo cattivo è tanto più pericoloso perché indossa giacca e cravatta, e non è interessato alla singola Cappuccetto Rosso. Anche le pur opportune analisi sul cyberbullismo rischiano di produrre una distorsione prospettica: non è il "cyber" che produce il bullismo, ma una cultura individualista, competitiva, insofferente all’alterità e a tutto ciò che non corrisponde ai canoni del successo. Un male interpretato bisogno di appartenenza e una diseducazione all’alterità sono, a mio avviso, le radici antiche di un fenomeno che è ben poco "cyber", anche se trova in rete nuove forme e nuovi terreni per manifestarsi. E qui viene la cautela. Va bene l’informazione, va bene la prevenzione. Ma come i corsi di educazione sessuale nelle scuole sono inutili – se non fuorvianti – quando manca una cornice antropologica di riferimento sul significato e il valore della sessualità per la persona, così l’educazione alla sicurezza in rete deve poggiare su un’idea positiva di che cosa vuol dire, oggi, vivere con altri in un ambiente "misto", insieme materiale e digitale. Ci sono, a mio avviso, solo due alternative: o assumiamo la deriva allarmista e difensiva e ci adeguiamo a quella che Bauman definisce «la società sotto assedio», fatta di porte blindate, fili spinati, sistemi di allarme e codici di sicurezza, che cerca di tenere "fuori" l’altro pericoloso; oppure cerchiamo di formare persone, consapevoli della complessità e delle ambivalenze, aperte al nuovo e all’alterità, capaci di declinare la sicurezza come un "surplus di cura" nei confronti di uno spazio da abitare con altri, che è quindi un bene comune, anziché come
sine cura, nel senso etimologico, da cui deriva l’accezione che usiamo comunemente: non doversi preoccupare, stare tranquilli, non avere paura. Non importa a quale prezzo.