«A tutti si fa chiaro, infatti, che in una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)». Queste sono parole di Giorgio La Pira, il celebre 'sindaco di Firenze', in un saggio del 1979, che portava un titolo in molti sensi profetico ( Una città fra Oriente e Occidente). Tra Oriente e Occidente, in effetti, le distanze si sono di nuovo molto accorciate, nel frattempo. Diciamo che ora stiamo 'gomito a gomito': in qualche caso, addirittura, quasi 'gli uni sugli altri'. Le prossimità in spazi ristretti, ancor più se si formano in modi non programmati e con fattori di promiscuità inconsueti, creano molti effetti indesiderati, imbarazzanti, persino irritanti e sgradevoli. Accade pure che ne scaturiscano incontri ravvicinati di terzo tipo, dove si imparano cose che gli esseri umani hanno in comune metti pure nel bene e nel male. L’immagine mediatica, impareggiabile risorsa per entrare in presa diretta con la realtà, ha pure capacità di accecamento (per non dir altro) che la parola non conosceva. È un fatto che l’immagine di decine di fedeli musulmani che si prostrano nella piazza centrale della città, occupando (quasi) per intero lo spazio davanti alla cattedrale, ci impressiona. Si parli pure di casualità, congiuntura, pausa di rispetto che sia, di fronte al primato del momento religioso della preghiera: ma non ha molto senso pretendere che non ci fosse l’intenzione di rendere il gesto mediaticamente forte e visibile. Insomma 'impressionante' per gli interlocutori non islamici della città, per lo più cristiana. Detto questo, 'provocazione' ha molti sensi. Noi stessi, persino nelle chiese cristiane, usiamo la stessa parola per parlare di alcuni gesti dei profeti, o dello stesso Gesù, che inducono fortemente a riflettere. Riceviamo dunque, come un impegno seriamente vincolante a futura memoria, la precisazione della volontà di non 'provocare' in termini di ostilità e di disprezzo. La riceviamo in stretta aderenza al gesto religioso e alla pausa della preghiera. Rimaniamo liberi di discutere e di distinguere, di comprendere e di respingere – noi stessi appassionatamente, nel caso – su tutto il resto. Nel momento attuale, mantenere una certa saldezza, nel controllo delle emozioni, deve giovare al discernimento. Discernimento non è sinonimo di cedimento e debolezza, è solo il contrario dell’impulsività e dell’ottusità. Nel contesto di una tale chiarezza di distinzioni, l’occasione deve generare impegno più concreto e creativo per far apparire meglio la funzione pro-positiva, non im-positiva, della fede religiosa. La preghiera è un buon modo per prendere distanza dalle nostre passioni meno nobili (o anche francamente peccaminose): non per circondarle di aureola. Affinché non ne sia essa stessa vittima, è necessario che i credenti accettino di rendere visibile più concretamente la sua capacità di smantellare le radici dell’odio, sottraendola anzitutto – e sempre di più – ad ogni sua equivoca parentela con la violenza. Il cristianesimo ha maturato dal suo seme una saldezza di convinzione e di cultura, su questo punto, che oggi rappresenta anche un tesoro e una lucerna, in tutto il mondo e fra le stesse religioni, per la nuova idea di cittadinanza. Forse una più appassionata e normale visibilità dell’autentico spirito cristiano, proprio nella forma corale e nel segno autentico della preghiera, restituirebbe saldezza e cuore alla speranza degli abitanti delle nostre città senz’anima. Di tutti. Sia quelli che si sentono paralizzati da una secolarizzazione inutilmente ostile, che disprezza l’umanesimo cristiano che la nostra fede e la nostra cultura hanno maturato. Sia quelli che fossero tentati, nell’esasperazione delle loro ferite e delle loro paure, di chiamare alle armi anche la religione.