giovedì 8 gennaio 2009
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«A tutti si fa chiaro, infatti, che in una città un posto ci deve es­sere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per gua­rire (l’ospedale)». Queste sono parole di Giorgio La Pira, il celebre 'sindaco di Fi­renze', in un saggio del 1979, che porta­va un titolo in molti sensi profetico ( Una città fra Oriente e Occidente). Tra Orien­te e Occidente, in effetti, le distanze si so­no di nuovo molto accorciate, nel frat­tempo. Diciamo che ora stiamo 'gomi­to a gomito': in qualche caso, addirittu­ra, quasi 'gli uni sugli altri'. Le prossi­mità in spazi ristretti, ancor più se si for­mano in modi non programmati e con fattori di promiscuità inconsueti, creano molti effetti indesiderati, imbarazzanti, persino irritanti e sgradevoli. Accade pu­re che ne scaturiscano incontri ravvici­nati di terzo tipo, dove si imparano cose che gli esseri umani hanno in comune ­metti pure nel bene e nel male. L’immagine mediatica, impareggiabi­le risorsa per entrare in presa diretta con la realtà, ha pure capacità di acce­camento (per non dir altro) che la pa­rola non conosceva. È un fatto che l’im­magine di decine di fedeli musulmani che si prostrano nella piazza centrale della città, occupando (quasi) per inte­ro lo spazio davanti alla cattedrale, ci impressiona. Si parli pure di casualità, congiuntura, pausa di rispetto che sia, di fronte al primato del momento reli­gioso della preghiera: ma non ha mol­to senso pretendere che non ci fosse l’intenzione di rendere il gesto media­ticamente forte e visibile. Insomma 'impressionante' per gli interlocutori non islamici della città, per lo più cri­stiana. Detto questo, 'provocazione' ha molti sensi. Noi stessi, persino nelle chiese cri­stiane, usiamo la stessa parola per par­lare di alcuni gesti dei profeti, o dello stes­so Gesù, che inducono fortemente a ri­flettere. Riceviamo dunque, come un im­pegno seriamente vincolante a futura memoria, la precisazione della volontà di non 'provocare' in termini di ostilità e di disprezzo. La riceviamo in stretta a­derenza al gesto religioso e alla pausa del­la preghiera. Rimaniamo liberi di discu­tere e di distinguere, di comprendere e di respingere – noi stessi appassionata­mente, nel caso – su tutto il resto. Nel momento attuale, mantenere una certa saldezza, nel controllo delle emo­zioni, deve giovare al discernimento. Di­scernimento non è sinonimo di cedi­mento e debolezza, è solo il contrario del­l’impulsività e dell’ottusità. Nel contesto di una tale chiarezza di distinzioni, l’oc­casione deve generare impegno più con­creto e creativo per far apparire meglio la funzione pro-positiva, non im-positi­va, della fede religiosa. La preghiera è un buon modo per prendere distanza dalle nostre passioni meno nobili (o anche francamente peccaminose): non per cir­condarle di aureola. Affinché non ne sia essa stessa vittima, è necessario che i cre­denti accettino di rendere visibile più concretamente la sua capacità di sman­tellare le radici dell’odio, sottraendola an­zitutto – e sempre di più – ad ogni sua e­quivoca parentela con la violenza. Il cristianesimo ha maturato dal suo se­me una saldezza di convinzione e di cul­tura, su questo punto, che oggi rappre­senta anche un tesoro e una lucerna, in tutto il mondo e fra le stesse religioni, per la nuova idea di cittadinanza. Forse una più appassionata e normale visibilità dell’autentico spirito cristiano, proprio nella forma corale e nel segno autentico della preghiera, restituirebbe saldezza e cuore alla speranza degli abi­tanti delle nostre città senz’anima. Di tut­ti. Sia quelli che si sentono paralizzati da una secolarizzazione inutilmente ostile, che disprezza l’umanesimo cristiano che la nostra fede e la nostra cultura hanno maturato. Sia quelli che fossero tentati, nell’esasperazione delle loro ferite e del­le loro paure, di chiamare alle armi an­che la religione.
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