A ridosso della giornata mondiale dedicata ai poveri che si celebra domani, domenica 18 novembre, si torna a parlare dei poveri, abitualmente rimossi senza troppi sensi di colpa, o, come in questi ultimi tempi a proposito del reddito di cittadinanza, improvvisamente "scoperti" e contati a milioni. Concetti come povertà assoluta e povertà relativa sono usciti per l’occasione dai manuali statistici e finiti a rimbalzare in dibattiti politici e talk show. Si parla evidentemente di dignità e di esigibilità dei diritti, non di paternalistica concessione. Cosa giusta e buona, naturalmente, ma che solleva una serie di questioni che forse è utile ricordare ed evidenziare perché la nostra attenzione sia costruttiva. Accade a volte nel dibattito pubblico che si scateni una sorta di paradossale gara tra poveri: è più bisognoso quello che sfanga la vita con una misera pensione sociale o la persona affetta da una disabilità? Necessita di attenzioni istituzionali più la madre abbandonata che cerca di tirar su i figli o l’anziana rimasta sola nella sua casa ormai troppo grande?
Ebbene, dovremmo evitare di usare categorie così schematiche, per classificare le diverse condizioni umane, spesso superate dallo stesso mutamento che ha trasformato profondamente i connotati della società a cui eravamo abituati. Gerarchizzare le fragilità può portare a scelte poco oculate, non fosse altro perché le povertà sono frequentemente multiple nello stesso individuo. L’uomo che si infila furtivo in una sala slot fin dal mattino assomma in sé (ce lo dicono le ricerche realizzate su questo tema) molto probabilmente una povertà del capitale culturale (con un titolo di studio che non va oltre la licenza media), una povertà economica (perché i suoi datori di lavoro hanno "dimenticato" di versargli i contributi) e una povertà di relazioni (perché magari la vita matrimoniale non è più felice da molto tempo). E l’immigrato che vaga con lo sguardo assente per strada, oltre a una irregolarità della sua condizione sociale, può soffrire di un disturbo mentale, magari una "sindrome post traumatica da stress" indotta dalle vicende che lo hanno portato a fuggire dal suo Paese e/o che ha dovuto vivere durante un viaggio che sembrava interminabile e in cui ha perso un parente o un amico. I suoi occhi sbarrati non sono segno di aggressività a mala pena repressa, ma segno della paura che si è installata in lui e gli stringe la gola e non gli dà tregua.
La grande crisi di questi ultimi anni ha inoltre indotto, come è noto, uno sprofondamento della classe media che, da un relativo benessere, si è ritrovata a contare gli spiccioli per pagare le utenze. Famiglie in cui ci si poteva permettere un viaggetto estivo o un divano nuovo si sono ritrovate a fare i conti con la cassa integrazione di lui o con il piccolo negozio dove lavorava lei che chiude la saracinesca. Vicende che li hanno lasciati improvvisamente a dover dire di no al figlio che chiede lo zaino nuovo o di partecipare a una gita scolastica di due giorni, perché "No, mi dispiace, non ce lo possiamo proprio permettere". Una delle cose che più stringono il cuore è vedere all’emporio della Caritas belle famigliole che potresti scambiare per famiglie serene se non fosse che chi è sereno non va a bussare alla Caritas.
Un’altra cosa che è bene ricordare è che spesso la povertà e invisibile: oggi l’indebitamento delle famiglie per acquistare beni che sembravano irrinunciabili o che forse lo sono è purtroppo una piaga diffusa e l’indebitamento può trascinare con sé cattivi incontri (si pensi al cappio dell’usura). Il fatto è che il modello di sviluppo basato sul patto sotteso tra consumo e finanziarizzazione ha reso legioni di persone persuase di dover accedere a beni (l’auto di alta gamma o l’abbigliamento griffato) che non si potevano assolutamente permettere. E, dall’altra parte, ha indotto una fascia ampia di popolazione a ricorrere a finanziarie e banche per acquistare quell’appartamento che magari avevano abitato come affittuari. E così si sono ritrovati a combattere con logiche che non erano in grado di padroneggiare o di gestire.
Ma saremmo davvero parziali nella nostra analisi se non ricordassimo che la povertà non è sempre solo economica: come verrà evidenziato nel "Rapporto sulle povertà a Roma, il punto di vista della Caritas" di imminente pubblicazione, la malattia, fisica e mentale e la disabilità sono forme di fragilità estrema che oltretutto ci pongono di fronte a una drammatica realtà: chi non ha il reddito e la cultura necessari per fronteggiare il suo problema, finisce spesso per esserne travolto. Si pensi, a titolo di esempio, alla condizione di tanti affetti da disturbi mentali, che restano senza cura o perché il loro bagaglio culturale non consente di affrontare una terapia psichiatrica (in virtù dello stereotipo per cui dallo psichiatra vanno solo i matti), cioè per una fragilità di natura culturale o, più semplicemente, perché a 40 anni dalla legge Basaglia, l’assistenza psichiatrica pubblica denuncia tutta l’incompiutezza di una riforma che avrebbe dovuto umanizzare finalmente la condizione del malato mentale. In questo elenco di suggerimenti per una migliore comprensione della povertà che potrebbe favorire un rapporto più maturo con la povertà, vorrei aggiungere la questione dell’immagine sociale del povero, la percezione collettiva della povertà.
Nei nostri tempi induriti, essa non può essere più rappresentata da una fanciullina infreddolita che chiede l’elemosina con un abitino liso addosso o come il misero coperto di stracci che sussurra con lo sguardo buono "fate la carità" sulla porta della Chiesa; queste sono immagini dolci, amabili, da illustrazione ottocentesca di un buon libro di racconti di Natale. No, la povertà vera delle nostre città è forse anche questo, ma soprattutto è un’altra cosa: sono adulti schiantati da un divorzio che ha lascito impoveriti sia lui sia lei; è un’anziana indurita e respingente, rintanata nella sua casa dove cova antichi rancori; è l’ex imprenditore che cerca consolazione nell’alcool e si rifiuta di lavarsi quando viene avvicinato da un buon samaritano; è l’immigrato irregolare che ruba qui e là per nutrirsi, ma stanco delle burocrazie interminabili abbandona il centro di accoglienza per mantenere la condizione di totale libertà; è lo psicotico che ci guarda storto seguito poco e male dal Dipartimento di salute mentale; è il trentenne smanioso e frustrato che non vuole più pesare sulla piccola pensione della mamma, ma che riesce a collezionare solo porte sbattute in faccia.
La faccia della povertà, quella dove noi cristiani dovremmo sapere vedere il volto del Signore, può essere "antipatica", ostile, sfuggente. L’espressione del viso di un povero dei nostri tempi può essere dura o inquietante. Può essere cocciutamente muto; oppure può gridare. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Gli operatori della Caritas ci dicono che la cosa di cui hanno più bisogno i poveri è proprio questa: che qualcuno li ascolti e restituisca loro la dignità di essere umano.