giovedì 8 agosto 2013
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Non è un caso che il primo viaggio di Papa Francesco sia stato a Lampedusa. Lampedusa è oggi una porta del tempo, la ferita aperta della globalizzazione. Finché questa ferita non si rimarginerà, non potremo dire che la contraddizione aperta dall’integrazione globale dei mercati del lavoro, del prodotto e della moneta sarà stata risolta.Il mondo ha vissuto per molto tempo a compartimenti stagni. L’enorme massa di diseredati che campava con un dollaro al giorno è sempre esistito, ma contava poco e non disturbava. La porta di comunicazione tra quel mondo e il nostro era sostanzialmente chiusa e potevamo ignorare il fatto che nelle filiere internazionali di prodotto (per esempio i «coloniali», come caffè e tè…) questi «disperati» fossero schiacciati nella parte bassa del valore, con salari di sussistenza. Era questo addirittura un vanto, parte importante delle nostre conquiste di efficienza economica (che è la differenza tra i ricavi della vendita del prodotto finale e i costi di produzione). Potremmo ricordare ironicamente, da questo punto di vista, che il massimo dell’efficienza storicamente raggiunto è in fondo quello dei conquistatori spagnoli a Cuba nelle filiere dello zucchero, la cui materia prima – la canna – veniva coltivata e raccolta da schiavi nelle piantagioni (col massimo della flessibilità e della competitività del costo del lavoro).Lo scherzo che la globalizzazione ci ha giocato è stato quello di rendere nostro «prossimo» anche gli ultimi del mondo, impedendoci di disinteressarsi dei loro destini. Con le aumentate possibilità di delocalizzazione della produzione, di disperati sono diventati infatti «esercito di riserva» di manodopera, facendo aumentare enormemente il potere contrattuale dei datori di lavoro nei confronti dei lavoratori nei Paesi ricchi. E le conquiste salariali e di tutela conquistate da questi ultimi sono diventate per effetto di tale novità improvvisamente obsolete e insostenibili. A fronte della concorrenza di un grande «esercito di riserva», l’unica strada sembra quella di accettare condizioni salariali molto più basse per evitare la minaccia di chiusura o di delocalizzazione.In fondo, di tutto questo l’opinione pubblica potrebbe fingere di non accorgersi mettendo la testa sotto la sabbia e non capendo le cause profonde dei continui episodi di chiusura di impianti produttivi da noi. Ma isole come Lampedusa (dove la distanza geografica è minima e i due mondi possono toccarsi) ci impediscono di non vedere e non capire. Non esiste infatti luogo nel quale l’apertura di questa «porta del tempo», tra i due mondi che per secoli avevano viaggiato a diverse velocità, sia più chiaramente percepibile. A Lampedusa si rende visibile e concreto quel gap di condizioni di vita che è la molla che spinge migliaia di persone a prendere il mare in condizioni drammatiche per cercare di approdare sulla sponda del benessere. Quest’isola è, dunque, il principale teatro a cielo aperto delle nostre contraddizioni, il luogo dove si rende concretamente visibile la ferita dei divari di benessere su cui la globalizzazione ha sparso sale rendendo la piaga ancora più dolorosa. Ed è il luogo dove, oltre a verificare se la soluzione politica funziona, si può realizzare la riuscita delle nostre vite personali mentre la ferita è ancora aperta, attraverso l’unica strada possibile che, come insegna il Papa, è quella della prossimità e dell’accoglienza come premessa e prologo a un’azione per affrontare e sanare le condizioni di violenza, ingiustizia e sfruttamento che provocano le migrazioni.Uno scoglio non può arginare il mare, e la questione non potrà infatti mai chiudersi con un pattugliamento delle coste o con azioni meramente repressive. Un’isola tutt’altro che isolata e le drammatiche vicende di cui è teatro stanno lì a ricordarci che dobbiamo lavorare per chiudere questo divario. Le strade per farlo e per accelerare il processo di convergenza esistono da tempo (voto col portafoglio nei consumi solidali, accordi di scambio con clausole sociali, costituzione di sindacati e di gabbie salariali mondiali). I mercati non mettono tutto a posto da soli e le conquiste sociali del welfare europeo sono state il frutto doloroso e sofferto degli sforzi di tanti per tanto tempo. Così sarà anche per il nuovo riequilibrio mondiale.Se una persona si sveglia piena di punture di zanzara, capisce subito che la soluzione del problema non è grattarsi, ma mettere zanzariere alle finestre. Eppure la maggior parte del dibattito sulla crisi non è altro che un «grattarsi», nell’illusione che sia un po’ più o un po’ meno di Imu, di Iva o di costi della politica a tirarci fuori dai problemi. Il problema è anche qui, in casa nostra, e in casa nostra arriva, ma non è tutto qui. Se smettessimo di guardare solo ai sintomi, lo avremmo più chiaro. E se lavorassimo con serietà sulle cause della «grande crisi», saremmo già a metà dell’opera.
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