Il numero dei morti, dei feriti, dei senza tetto, degli sfollati è ormai talmente mostruoso da far ritenere che prima o poi una tregua dovrà essere accettata. Eppure, anche quella di ieri ha retto pochissime ore; poi è saltata, come tante, troppe palazzine, scuole, ospedali della Striscia di Gaza. Hamas e Israele stanno giocando il tutto per tutto, nell’illusione di poter arrivare a una trattativa da una posizione di vantaggio, nella consapevolezza che altri – il popolo palestinese – pagano l’intero prezzo di questa follia. Di fronte ai 300 miliziani di Hamas che Israele sostiene di aver eliminato e i 61 soldati di Tshal morti dall’inizio dell’invasione, stanno i 1.300 morti civili, di cui almeno 250 bambini, uccisi in 24 giorni di bombardamenti. Il governo di Netanyahu crede di poter risolvere militarmente il problema politico costituito da Hamas. L’organizzazione palestinese pensa di poter replicare il successo degli Hezbollah libanesi, che nel 2006 costrinsero gli israeliani alla ritirata. Pura follia. Intorno, una comunità internazionale impotente e, a tratti, sgomenta, con gli americani che mentre fanno 'la voce grossa' con Netanyahu, poi lo riforniscono delle granate necessarie a continuare i bombardamenti e gli europei che, come al solito, balbettano, preoccupati di 'isolare' Israele e giustamente poco proclivi a vedere in Hamas un interlocutore accettabile. Ma è tutta la regione, dalla Libia alla Siria, all’Iraq che sta subendo una trasformazione devastante e pericolosissima. Tra qualche anno potremmo essere costretti a rimpiangere Hamas come oggi rimpiangiamo Gheddafi, Saddam e speriamo che Assad resista. I miliziani del Califfato Islamico in Siria e Iraq, che l’altro giorno hanno tagliato le teste ai soldati lealisti catturati nella provincia di Raqqa e le hanno infilate su una cancellata, ci parlano di questa 'evoluzione', mentre già oggi a Gaza i guerriglieri della Jihad islamica stanno erodendo lo spazio di Hamas. È uno scenario da incubo, alimentato dalle guerre e dall’odio che da decenni squassano questa regione, e fomentano una spirale di radicalizzazione in cui chi crede in soluzioni pacifiche è marginalizzato (vedi Abu Mazen) o ucciso: come accadde a Yztak Rabin, il premier israeliano assassinato da un estremista ebreo nel 1995. E così la guerra va avanti, cinicamente alimentata da entrambe le parti, sorde a ogni pressione internazionale, nella convinzione di poter vincere sul campo... Ieri Hamas è riuscita a rapire un soldato della forza di invasione israeliana, progetto cui stava lavorando dall’inizio delle ostilità: spera così di poter piegare la volontà di Tel Aviv? Vuole invece provocarne una reazione ancora più furiosa? Quali che siano le intenzioni manifeste e recondite dei suoi leader, la sola certezza è che altri ne pagheranno il prezzo. Ribadirlo oggi appare sicuramente un pio desiderio: ma deve essere chiaro che nessuna tregua potrà mai trasformarsi in una pace senza il riconoscimento della totale ed effettiva indipendenza di uno Stato palestinese nei confini precedenti all’occupazione israeliana del 1967. Solo quando il popolo palestinese potrà vivere con pari dignità accanto a quello israeliano i motivi che alimentano la violenza potranno venire meno. Sarà uno Stato smilitarizzato, ma sovrano. Senza questo non c’è alcuna speranza per la pace in Medio Oriente, dobbiamo essere molto chiari in proposito. Può essere un processo graduale, ma il protrarsi di una situazione ibrida come quella dell’Autorità Nazionale Palestinese è francamente inconcepibile. Continuando così, Abu Mazen rischia sempre più di essere percepito agli occhi dei suoi come il Quisling della Palestina, un collaborazionista a capo di un governo fantoccio, come i tanti sorti in Europa durante la II guerra mondiale. Difficile immaginare che questo risultato sia nell’interesse della sicurezza di Israele o che i Palestinesi possano scoprire la virtù della moderazione sotto la pioggia di bombe di questi giorni.