Comunque andrà a finire, sarà più difficile sostenere che è colpa della legge elettorale se risulta complicato, complicatissimo, formare una maggioranza di governo dopo il voto del 4 marzo. La legge elettorale non c’entra. Anzi, se la matematica non è un’opinione, va ricordato che la maggioranza M5s-Lega (che vale il 50 per cento dei consensi) è tale grazie al tesoretto di 32 seggi che la portano alla Camera ben oltre la fatidica soglia di 316 (altrettanto accade al Senato) seggi forniti proprio dal tanto criticato 'Rosatellum'. Che, attraverso l’effetto maggioritario creato dai seggi uninominali e dalla falcidie dei partiti rimasti sotto la soglia del tre per cento, un aiuto alla governabilità lo dà eccome: il centrodestra ad esempio (prima coalizione) ha ottenuto all’incirca il 42 per cento dei seggi in presenza di suffragi poco superiori al 37.
Legge elettorale, questa sconosciuta. Si è andati avanti per tutta la campagna elettorale a far passare la notizia falsa di una soglia di autosufficienza collocata al 40 per cento, come se fosse ancora in vigore il premio di maggioranza previsto dalla precedente legge per la Camera, l’'Italicum'. « Fake news! », scandisce il professor Antonio D’Alimonte, massimo esperto in materia, che indica quali sarebbero le soglie 'vere' oltre le quali non ci sarebbe stato bisogno di trattativa per formare un governo: «Sarebbe servito un 40 e 70 o un 45 e 65 – spiega D’Alimonte –. Ossia, si sarebbe dovuto ottenere o un 40 per cento di seggi nel proporzionale sommato a un 70 per cento nell’uninominale, o un 45 per cento nel proporzionale e 65 per cento nel maggioritario». Obiettivi difficilissimi, quasi impossibili in un sistema tripolare in cui, come ha più volte ribadito Sergio Mattarella, c’è bisogno che due poli su tre si mettano d’accordo. A favorire l’intesa è arrivato il 'passo di lato' di Silvio Berlusconi. Ne è scaturito il meraviglioso neologismo della «benevolenza critica» coniata dal governatore ligure Giovanni Toti e già entrato nella leggenda della storiografia politica accanto alle «convergenze parallele» di epoca morotea ( copyright di Eugenio Scalfari) e agli «equilibri più avanzati» propugnati dal Psi di Francesco De Martino.
Ma se non alla legge elettorale a chi attribuire la colpa del pantano dal quale si fa fatica ad uscire a due mesi e mezzo dal voto? Può aiutare andare a una nostra inchiesta di 6 anni fa. Nel marzo 2012 provammo a mettere sotto la lente la propensione dei partiti in crisi, e dei singoli esponenti, rispetto ai nuovi media. Il Pd era in mano a Pierluigi Bersani, la Lega a Umberto Bossi, Silvio Berlusconi era ancora il dominus assoluto del centrodestra, mentre M5s era ancora un fenomeno piuttosto limitato. Le statistiche di presenza sui social, però, erano in grande anticipo sui tempi. Matteo Renzi risultò essere il più 'gettonato' nel Pd, Matteo Salvini era il primatista assoluto nel centrodestra, mentre M5s era in grande vantaggio essendo questi strumenti fondanti per il Movimento sin dalla sua genesi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i leader attuali hanno tutti scalato le loro posizioni non nelle sezioni o nelle scuole di partito di una volta ma padroneggiando i 140 caratteri di Twitter o le tecniche di condivisione di Facebook. Era appena uscito, nel 2012, il libro La net comunicazione politica, presentato alla Camera dei Deputati da Francesco Pira, sociologo, docente di comunicazione all’Università di Messina, e grande studioso del fenomeno. Dopo sei anni Pira è ritornato sul 'luogo del delitto' per mettere a fuoco la patologia di un fenomeno che nel frattempo si è definitivamente affermato. Nei giorni scorsi insieme a un altro esperto del settore, Andrea Altinier, ha pubblicato per i tipi di 'LibreriaUniversitaria.it', in collaborazione con l’università salesiana, il volume Giornalismi - La difficile convivenza con fake news e misinformation. È il frutto di un lavoro di ricerca e monitoraggio della Rete durato circa 2 anni dal quale emerge che «i social rappresentano una sorta di Minculpop, in cui non vi è confronto, e possono avviare un flusso di informazioni funzionale alla propria tesi. Si registra un meccanismo di disintermediazione, perché i post sui social vengono virgolettati e diventano dichiarazioni».
Il risultato è una campagna elettorale permanente, che vede ognuno impegnato ad arricchire gli affiliati alla propria tribù, in aperto conflitto con le altre, ma anche con la realtà dei fatti, che ci colloca saldamente in una democrazia parlamentare (i tentativi di modificare la Carta sono stati da poco sonoramente bocciati) e alle prese con una legge elettorale a prevalenza proporzionale. In questo quadro la falsa notizia del premio di maggioranza al 40 per cento (avallata da tutti i leader) è risultata essere la madre di tutte le fake news. Illudendo i propri elettori che la soglia di autosufficienza potesse essere un risultato alla portata ognuno ha coltivato con cura la sua piccola porzione di 'misinformazione' senza bisogno di confrontarsi né con gli altri né con la realtà, fatta anche di trattati internazionali, unioni monetarie ed equilibri di bilancio da rispettare.
L’invito di Mattarella, in apertura di campagna elettorale a perseguire proposte 'realistiche e concrete' è stato in larga misura disatteso, un po’ da tutti. Altrettanto l’invito, giunto in piena sintonia dal presidente della Cei, cardinale Gualtiero Bassetti, a una «sobrietà nelle parole e nei comportamenti». Scambiati per noiosi richiami a una sorta di galateo erano invece dei concretissimi inviti a nobilitare la propria azione politica con l’irrinunciabile virtù di tradurre in fatti le promesse. «Si continua a parlare alla pancia della gente – prosegue Pira –, meno al cuore e all’anima. Il Presidente della Repubblica, nel discorso di Capodanno, aveva più volte ripetuto la parola responsabilità. Pur cogliendo la nuova fase della comunicazione politica e i nuovi linguaggi aveva invitato partiti e movimenti alla riflessione. Ma il problema è più generale, riguarda l’Europa e il mondo. È la fase della deideologizzazione totale. Recenti ricerche dimostrano come alcuni gruppi di persone interessate alla politica continuino a credere a una notizia, a commentarla e a diffonderla, anche quando viene loro spiegato e dimostrato che si tratta di un falso». Questa 'misinformazione' rafforza l’astio fra le diverse fazioni ed è all’origine dei veti incrociati che abbiamo visto dispiegarsi in questi due mesi e mezzo di tentativi a vuoto di fare un governo. «Sorge la necessità di giustificare all’inquieto mondo social scelte che potrebbero non essere comprese da un elettorato che ha ricevuto input molto precisi. Si vota a giugno per le amministrative e il rischio di tornare presto al voto anche per le politiche non è scongiurato. E quindi è necessario fidelizzare gli elettori e tentare di far tornare alle urne quelli che non ci sono andati».
Ora, ci si interroga sulle ragioni per cui Mattarella mostri minore preoccupazione rispetto alle cancellerie europee di fronte alla possibilità che si dia vita a una maggioranza tendenzialmente sovranista. C’entra molto, su questo, l’impostazione morotea del capo dello Stato, che porta a scegliere sempre il dialogo verso istanze espressione del consenso popolare. Ma c’è un’altra riflessione, a monte, che preoccupa Mattarella. Una qualsiasi maggioranza che avesse fatto a meno di uno dei due partiti egemoni, uno nel 'ricco' Nord e l’altro nel Sud più arretrato, avrebbe di fatto spaccato in due il Paese. Il dialogo in corso invece, oltre che necessario, viene seguito sul Colle con un fiducioso auspicio: che le istanze di protesta (che attraversano tutta Europa) possano essere in Italia coinvolte in uno scatto in avanti di «realismo e concretezza», messe alla prova dei numeri economici da rispettare e dal dettato Costituzionale non eludibile, anche nella parte che ci vincola al rispetto di Trattati e alleanze in corso. Un aspetto sul quale Mattarella non rinuncerà a far valere le sue prerogative nel rispetto, certo, del consenso popolare espresso, ma anche dell’unità del Paese, della 'comunità' Italia.