martedì 3 novembre 2009
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Sento che viene il tempo in cui la celebrazione di questo "giorno della memoria" – caduto giusto ieri – renderà insignificanti le sue ultime controfigure: bislacche, patetiche, ossessive. Hallowen testa-di-morto, per dire, che fece il patto col diavolo, gli andò male, e non trova più pace. E si traveste da bambino innocente, per farci diventare zucche vuote anche noi. Per non parlare di "morti viventi", trucida parodia di una pulsione distruttiva che non finisce mai di morire. Non ci descrivono già, scientificamente, come una specie di predatori vincenti (per il momento), dove si selezionano i migliori e i più avidi, a spese dei più deboli e meno voraci? Proprio in una fase della cultura sociale in cui siamo concentrati – con serie ragioni, certo – sui temi dell’inizio-vita e del fine-vita, la nascita e la morte rischiano di diventare "tecnicamente" importanti e così "filosoficamente" insignificanti. In questo modo, però, insignificante diventa tutto ciò che viene prima, e tutto ciò che viene dopo. Che fa parte del nostro nascere e morire, cuore e anima, sangue e carne. Ed è moltissimo, se ci pensate. Eppure, siamo quasi rimasti senza parole su questo. La catena delle generazioni, che sostengono la nostra identità, nutrita di racconti delle tenerezze e delle durezze attraversate per arrivare fino a noi, con il loro carico di ostacoli superati e di ferite portate, con le quali siamo in debito. E le fantasie d’amore nelle quali è stato predisposto il nostro primo habitat, dove abbiamo appreso, inconsapevoli, cose che altrimenti nessuno ci avrebbe potuto insegnare; e abbiamo incorporato attese e promesse, per le quali eravamo pronti, da subito, a batterci e ad appassionarci. E la ferita ultima, che non si lascia rimarginare: il duro congedo. Improvviso e tagliente, oppure in lungo avvicinamento, contiene fragilità delicate, che ci fanno debitori gli uni degli altri, senza possibilità di saldare veramente il conto. La volontà di potenza, quel conto lo può stracciare, ma esso rimane scritto. Nel cielo stellato sopra di noi e nella coscienza morale dentro di noi, almeno. Anche il congedo ha il suo racconto profondo, che continua attraverso di noi. E molto rimane in sospeso, che il racconto delle generazioni deve tenere in vita, incorporandolo – letteralmente – nella propria. Toglieteci il racconto del prima e del dopo, e si svuoterà anche la vita di mezzo. L’umano che viene separato dall’umano lascia una ferita che non si deve rimarginare con un atto di forza, né cancellare con un atto di rimozione. L’umano che si separa dalla storia di cui è figlio, e di cui diventa grembo e guida a sua volta, ti muore dentro. La memoria credente, a rigore, non ci ricorda propriamente "la morte". La memoria credente ricorda "i morti": il loro arrivo, il loro transito, il loro congedo. Il loro significato: incancellabile. Insomma, ciò che dell’umano non va perduto, perché i morti non sono "niente", e Dio è Signore del prima e del dopo. E ciò che di esso non dobbiamo perdere, perché la passione del Figlio per l’umano ci interrogherà proprio sulla tenerezza che avremo riservato all’evento del venire al mondo e del congedo da esso. Perché l’umano non viene "da niente". Nella fragilità del suo accadere, si accende qualcosa di inviolabile e di eterno. Per tutti noi.
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