Dietro alle nomine, la lunga miccia del voto europeo
domenica 30 giugno 2024

Dovevano essere le elezioni della svolta per l’Europa. Il voto del 6-9 giugno è diventato invece un potenziale spartiacque soprattutto per i due principali Paesi dell’Unione. Le urne Ue del 2024, con tante sfide epocali da affrontare tra guerra in Ucraina, aggressività russa e presidenziali americane che potrebbero sancire una svolta nei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico, hanno prodotto un terremoto a Parigi e Berlino, lasciando tutto quasi immutato a Bruxelles.

Almeno questa potrebbe essere l’impressione dopo il vertice tra i capi di Stato e di governo che ha dato il via a una continuità di fatto con la passata legislatura. Stessa “maggioranza” parlamentare grazie alla rinnovata – e di fatto obbligata – alleanza tra popolari, socialisti e liberali, numericamente di poco ridotta rispetto a cinque anni fa. Riconferma probabile per la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e per la presidente del Parlamento, Roberta Metsola. Volti nuovi solo alla presidenza del Consiglio europeo, con il portoghese Antonio Costa, e per l’Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, l’estone Kaja Kallas. Per il ruolo più importante servirà il voto dell’Assemblea composta da 720 membri dove i giochi possono essere rimessi in discussione dai franchi tiratori insofferenti alle indicazioni di partito e coperti dallo scrutinio segreto. Ma prima del 18 luglio, data indicata per questo passaggio chiave, ci saranno a partire da oggi domeniche assai calde in Francia, per i due turni delle legislative anticipate frutto, come detto, della consultazione continentale.

Se il Rassemblement National di Marine Le Pen conquisterà la maggioranza dei seggi, diventerà primo ministro Jordan Bardella inaugurando una scomoda “coabitazione” con il presidente Emmanuel Macron, uno degli architetti degli attuali equilibri europei. A quel punto qualche eurodeputato in più potrebbe essere tentato di fare saltare gli accordi trovati tra i leader (anche se potrebbe esservi un ricompattamento e una convergenza di voti extra-coalizione proprio per evitare instabilità nell’Unione).

Quello che rileva, però, è la frenata che il nuovo manovratore della locomotiva francese cercherebbe di attuare, in competizione con un Macron “dimezzato” rispetto al processo di integrazione e ai dossier chiave sul tavolo dell’Unione. E la forza attrattiva degli euroscettici da Parigi potrebbe trasmettersi ad altri Paesi chiamati alle urne a breve, come l’Austria. Non si può infatti dimenticare la doppia dinamica che governa la politica continentale nei suoi attuali assetti “confederali”. Da una parte, gli Stati con i loro interessi particolari su cui trovare compromessi virtuosi; dall’altra, le sintonie ideologiche che sono trasversali ai Paesi e possono creare blocchi diversi rispetto a quelli nazionali.

Una divaricazione che si è accentuata al crescere delle forze sovraniste o comunque ostili a un’Europa più unita e federale. E qui si colloca la partita giocata dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Su un versante, sta cercando di ottenere un posto di rilievo per l’Italia nella Commissione (nello specifico, una delle 3 o 4 vicepresidenze esecutive). Sull’altro, si trova isolata (è l’unica a non avere detto nemmeno un “sì” alle proposte per le cariche da assegnare) in quanto espressione dei Conservatori e figura guida della galassia della destra cui appartiene anche Le Pen, un’area caratterizzata dalla volontà di circoscrivere le competenze e gli interventi comunitari a favore dell’autonomia decisionale dei 27 membri.

Se è vero e doveroso ciò che ha sottolineato il presidente Sergio Mattarella, ovvero che l’Europa non può prescindere dall’Italia, il compito che la premier ha dovuto affrontare è complicato proprio dalla doppia dinamica descritta in precedenza.

La linea scelta, inedita e radicale, da Palazzo Chigi nel Consiglio due giorni fa – astensione su Von der Leyen e contrarietà a Costa e Kallas – indica il difficile tentativo di tenere alti il contributo e l’orgoglio italiani di fronte all’esclusione di Roma dalla fase negoziale e di lasciarsi aperto uno spazio per un’ulteriore fase di negoziazione. L’esclusione subita dal nostro governo è figlia di reciproche diffidenze e di piccole e grandi scortesie con i principali esponenti delle altre famiglie politiche - Macron e Scholz in primis -, ma sembra provenire sostanzialmente dal cambio di strategia che Meloni ha compiuto alla viglia delle elezioni, abbandonando il rapporto privilegiato con la responsabile uscente della Commissione e i toni morbidi in materia europea per riprendere una posizione più distante e critica al fine di capitalizzare consenso interno. Postura resa più netta e aspra in alcuni discorsi delle ultime ore, proprio per marcare di nuovo la distanza dai “caminetti” di Bruxelles e, forse, provare una diversa strategia nel caso vi fosse il trionfo del Rassemblement National e si facesse concreta l’idea di un asse con Le Pen.

In conclusione, è una miccia lunga quella che le elezioni europee hanno accesso. Se oggi non ne vediamo gli effetti pirotecnici, il motivo sta nella catena di eventi che hanno innescato e di cui emergeranno le conseguenze nel medio periodo (per esempio, quello di giovedì è stato l’ultimo Consiglio dell’olandese Mark Rutte, pronto a traslocare alla Nato, che lascerà il posto a un premier espressione del governo di cui il populista Geert Wilders è il maggiore azionista).

L’Europa non farà passi indietro, potrebbe tuttavia faticare a farne di significativi in avanti, soprattutto se i suoi motori – Francia, Germania e Italia – sono tentati, sia a livello popolare sia nei loro leader, dalle sirene di vie nazionalistiche che rischiano di compiacere sentimenti del momento ma di fallire malamente in un mondo instabile e imprevedibile (arduo non pensare con preoccupazione alla situazione americana emersa dal dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump). Ci avviamo così a un luglio che potrebbe essere decisivo nel fare esplodere le contraddizioni europee o nel tenerle ancora sotto controllo in un precario bilanciamento tra spinte opposte.

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