sabato 10 novembre 2012
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S’impara bene soltanto ciò che si ama. Si può apprendere anche qualcosa che ci lasci indifferenti o addirittura ci risulti ostico o odioso. Ci potrà anche restare incollato alla memoria come una vecchia crosta. Ma soltanto ciò che ci appassiona rimane inciso nel cuore, non solo nella mente.
È possibile amare l’Inno di Mameli? Sì, ma tutto dipende dall’insegnante. È cosa buona e utile che gli italiani – a partire dai più giovani – lo conoscano e lo amino? Sì, ma tutto dipende dal significato che gli diamo. In sé, ogni inno è un insieme di parole e suoni che rimangono vuoti, se chi ascolta non gli attribuisce un significato. Se non c’è un maestro che gliene propone uno. Quello giusto.
Il maestro perfetto c’è e ha già tenuto la sua lezione. La lezione perfetta. Il maestro è Roberto Benigni e memorabile rimane la sera del 18 febbraio 2011 quando salì sul palcoscenico del teatro Ariston a Sanremo, nell’ambito del Festival della canzone italiana, per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia. La sua performance è disponibile su YouTube. Dura 45 minuti, il tempo esatto di una lezione. E compie due prodigi in un colpo solo: stuzzica la mente e fa vibrare il cuore. È filologia ed è rappresentazione. Ci spiega a quale generazione appartiene Mameli, l’autore del testo, ventenne volontario sul Mincio nel 1848, ferito, amputato e morto nella difesa di Roma l’anno successivo.
Racconta le idee e gli ideali di quella generazione di giovani italiani; ma ce ne fa sentire anche la voce, ce ne fa toccare il cuore. L’Inno di Mameli viene spesso liquidato come «testo retorico», irrimediabilmente legato a un’epoca ampiamente tramontata. Cercate un’altra obiezione, per cortesia. Tutti gli inni sono datati e retorici, eppure i popoli li cantano, si emozionano e diventano migliori, perché un buon inno – buono: non aggressivo né istigante alla violenza – è un allenamento alle emozioni, è ginnastica per il cuore. L’inno della tua patria, della tua squadra di calcio, della tua associazione...
Provate a dire a un alpino che il suo inno è retorico ed è sciocco cantarlo. Le escoriazioni ve le sarete cercate. L’inno serve, se consegnato a un maestro capace di farlo comprendere e amare. Serve a far scoprire le radici. Da dove veniamo. Serve a far scoprire una parte delle fondamenta che consentono all’Italia di traballare, forse, ma non crollare. Come insegnarlo? Saremo eterodossi e assai dopo didatticamente corretti. Ma Roberto Benigni si è rivelato il maestro perfetto e per 45 minuti la cattedra va lasciata a lui. E chi ha una mente e un cuore, nell’aula, li sentirà cantare.
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