martedì 20 gennaio 2009
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Sarà anche una tregua fragilissima, ac­cettata dalla parti di malavoglia, ma è u­na tregua. Un fatto in sé positivo, dopo la scia di morti e distruzioni dei giorni scorsi. Ogni ora che passa rafforza il filo tenue del cessate il fuoco e permette alla comunità internazionale di definire meglio le possi­bilità di agire concretamente per stabiliz­zare con celerità la situazione sul campo. Essere ottimisti è davvero difficile quando si parla del conflitto israelo-palestinese. Non bisogna tuttavia rinunciare a sperare che questo gennaio così sanguinoso possa spin­gere i vari attori locali e internazionali a un maggiore impegno. Nel 2006, finito il deva­stante confronto fra Israele ed Hezbollah, in molti dubitavano della reale utilità di schie­rare una forza di pace internazionale. La de­cisione dell’Italia di impegnarsi con energia in tal senso si è al contrario rivelata una scommessa vinta. Allo stesso modo, le per­plessità sugli adempimenti previsti dalla ri­soluzione Onu e sulle decisioni del vertice internazionale di Sharm el-Sheikh sono le­gittime. E bene si fa a sottolineare i rischi di una missione di pace in un territorio come quello di Gaza. Ma tutto ciò non deve dive­nire una scusa per disattenderle o per defi­larsi. Ancora non è chiaro quale sia il vero esito di questo conflitto. Oltre al gran numero di morti, di cui moltissimi civili, i successi e gli obiettivi stanno più nelle percezioni e nel­le agende politiche interne dei due conten­denti che in fattori tangibili. Hamas è scon­fitta militarmente (cosa del resto prevedi­bile), ma è dubbio che lo sia stata anche po­liticamente. Per ridurne la popolarità o per rendere meno radicale la sua ideologia, è fondamentale la collaborazione dei Paesi arabi, e soprattutto è necessario ridare un minimo di credibilità ad al-Fatah e ai mo­derati palestinesi. Compito non facile, che dipende a sua volta dagli atteggiamenti i­sraeliani. La coalizione al governo a Tel Aviv aveva bi­sogno di dimostrare capacità di garantire, con durezza, la sicurezza del proprio Stato per affrontare con qualche speranza le pros­sime elezioni contro il Likud di Netanyahu. La durezza è stata mostrata a tutti, palesti­nesi per primi, ma la sicurezza è ancora u­na scommessa che può portare Tzipi Livni – in caso di attacchi e nuove violenze – al di­sastro nelle urne. E in ogni caso, colpire in modo troppo pesante significa umiliare le componenti palestinesi moderate, com­promettendone ulteriormente l’immagine agli occhi del popolo. Alcuni elementi positivi sono comunque e­mersi. I Paesi arabi, e l’Egitto in particola­re, sono usciti da un’inazione che ha lasciato per troppo tempo campo libero ai radicali e all’azione di Siria e Iran. Hamas, è noto, co­stituisce un nemico comune per israeliani e arabi moderati. È però velleitario pensa­re di sconfiggere politicamente il movi­mento fondamentalista solo con la repres­sione o 'sigillando' ancora Gaza. Un con­trollo attento e rigoroso delle frontiere per limitare – impedire è chiedere troppo – un riarmo delle milizie sunnite radicali deve accompagnarsi a un reale impegno arabo per sostenere dal punto di vista umanitario e finanziario la popolazione palestinese. L’Olp e la maggior parte dei quadri ammi­nistrativi dell’Autorità nazionale in passa­to hanno dato prova di essere scandalosa­mente corrotti, uno dei motivi del succes­so di Hamas. E qui che la comunità inter­nazionale e l’Europa possono e devono mettersi in gioco, favorendo un processo di revisione dei meccanismi di gestione dei fondi internazionale e pretendendo mag­giore rigore negli interventi di cooperazio­ne. La conferenza di Sharm el-Sheikh infi­ne ha ridato visibilità al 'Quartetto' per il processo di pace (Onu, Usa, Russia e Ue), un’occasione per rilanciarne l’azione di­plomatica. Cruciale sarà ovviamente il ruolo statuni­tense. In questo conflitto, avvenuto nel momento di transizione fra due ammini­strazioni così diverse, Washington è stata, fi­no a oggi, poco presente. Obama sa che la questione del processo di pace è ineludibi­le. E che in Medio Oriente si gioca – da pre­sidente – una buona fetta della credibilità internazionale che – da candidato – ha fi­nora saputo raccogliere.
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