Sarà anche una tregua fragilissima, accettata dalla parti di malavoglia, ma è una tregua. Un fatto in sé positivo, dopo la scia di morti e distruzioni dei giorni scorsi. Ogni ora che passa rafforza il filo tenue del cessate il fuoco e permette alla comunità internazionale di definire meglio le possibilità di agire concretamente per stabilizzare con celerità la situazione sul campo. Essere ottimisti è davvero difficile quando si parla del conflitto israelo-palestinese. Non bisogna tuttavia rinunciare a sperare che questo gennaio così sanguinoso possa spingere i vari attori locali e internazionali a un maggiore impegno. Nel 2006, finito il devastante confronto fra Israele ed Hezbollah, in molti dubitavano della reale utilità di schierare una forza di pace internazionale. La decisione dell’Italia di impegnarsi con energia in tal senso si è al contrario rivelata una scommessa vinta. Allo stesso modo, le perplessità sugli adempimenti previsti dalla risoluzione Onu e sulle decisioni del vertice internazionale di Sharm el-Sheikh sono legittime. E bene si fa a sottolineare i rischi di una missione di pace in un territorio come quello di Gaza. Ma tutto ciò non deve divenire una scusa per disattenderle o per defilarsi. Ancora non è chiaro quale sia il vero esito di questo conflitto. Oltre al gran numero di morti, di cui moltissimi civili, i successi e gli obiettivi stanno più nelle percezioni e nelle agende politiche interne dei due contendenti che in fattori tangibili. Hamas è sconfitta militarmente (cosa del resto prevedibile), ma è dubbio che lo sia stata anche politicamente. Per ridurne la popolarità o per rendere meno radicale la sua ideologia, è fondamentale la collaborazione dei Paesi arabi, e soprattutto è necessario ridare un minimo di credibilità ad al-Fatah e ai moderati palestinesi. Compito non facile, che dipende a sua volta dagli atteggiamenti israeliani. La coalizione al governo a Tel Aviv aveva bisogno di dimostrare capacità di garantire, con durezza, la sicurezza del proprio Stato per affrontare con qualche speranza le prossime elezioni contro il Likud di Netanyahu. La durezza è stata mostrata a tutti, palestinesi per primi, ma la sicurezza è ancora una scommessa che può portare Tzipi Livni – in caso di attacchi e nuove violenze – al disastro nelle urne. E in ogni caso, colpire in modo troppo pesante significa umiliare le componenti palestinesi moderate, compromettendone ulteriormente l’immagine agli occhi del popolo. Alcuni elementi positivi sono comunque emersi. I Paesi arabi, e l’Egitto in particolare, sono usciti da un’inazione che ha lasciato per troppo tempo campo libero ai radicali e all’azione di Siria e Iran. Hamas, è noto, costituisce un nemico comune per israeliani e arabi moderati. È però velleitario pensare di sconfiggere politicamente il movimento fondamentalista solo con la repressione o 'sigillando' ancora Gaza. Un controllo attento e rigoroso delle frontiere per limitare – impedire è chiedere troppo – un riarmo delle milizie sunnite radicali deve accompagnarsi a un reale impegno arabo per sostenere dal punto di vista umanitario e finanziario la popolazione palestinese. L’Olp e la maggior parte dei quadri amministrativi dell’Autorità nazionale in passato hanno dato prova di essere scandalosamente corrotti, uno dei motivi del successo di Hamas. E qui che la comunità internazionale e l’Europa possono e devono mettersi in gioco, favorendo un processo di revisione dei meccanismi di gestione dei fondi internazionale e pretendendo maggiore rigore negli interventi di cooperazione. La conferenza di Sharm el-Sheikh infine ha ridato visibilità al 'Quartetto' per il processo di pace (Onu, Usa, Russia e Ue), un’occasione per rilanciarne l’azione diplomatica. Cruciale sarà ovviamente il ruolo statunitense. In questo conflitto, avvenuto nel momento di transizione fra due amministrazioni così diverse, Washington è stata, fino a oggi, poco presente. Obama sa che la questione del processo di pace è ineludibile. E che in Medio Oriente si gioca – da presidente – una buona fetta della credibilità internazionale che – da candidato – ha finora saputo raccogliere.