Uno stambecco: l'equilibrio dell'habitat degli animali d'alta quota è a rischio, si sta scatenando una guerra per i pascoli con i nuovi arrivati (foto di Bogna Sudolska)
La statale 38 romba centinaia di metri più in basso. Aria condizionata a manetta e finestrini sigillati. Si saluta la canicola mentre la radio gracchia di Greta e riscaldamento globale. Ogni giorno, migliaia di auto risalgono il passo dello Stelvio. Spesso senza una méta, se non questa fuga impossibile da un nemico invisibile. Global warming: la temperatura sulle Alpi è aumentata di poco meno di due gradi in 120 anni. Due gradi, si badi bene, sono il doppio rispetto all’incremento registrato dall’inizio dell’era industriale. Un’enormità, se si considera che la temperatura media globale è di 15 gradi centrigradi.
Il cambiamento climatico non si vede, eppure c’è. Come i kaiserjaeger che ci contendevano queste creste durante la Grande Guerra. Ne udivi la mitraglia. Oggi, le raffiche d’auto salgono lamentose dal fondo valle, tornante dopo tornante. Ta-pum, ta-pum... come i canti degli alpini, i rapporti del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) scandiscono questa nuova 'inutile strage'. Manca solo un ardito a cantare la trincea rovente. Non è solo la nostra, ma le marmotte che popolano la valle dei Vitelli non sembrano prestare attenzione a quanto succede più in basso. Hanno una loro guerra da combattere. Non basta più sopravvivere all’aquila: ogni anno devono scavare le loro tane più in alto, seguendo il permafrost. Arrivare là dove arriva la neve, tutt’uno con l’habitat di questi roditori. Fuggono anche loro al riscaldamento globale, come la pernice e la lepre bianca, sempre più isolate sulle vette, insieme a stambecchi e camosci.
Dinnanzi al cambiamento climatico persino Darwin non saprebbe che dire. Il termometro, infatti, sale così rapidamente che l’evoluzione fatica a stargli appresso. Eppure, sopra i duemila metri non servono i numeri dell’IPCC per cogliere la gravità della situazione. Basta osservare gli animali e le piante. A qualche centinaio di metri dai vacanzieri che ogni giorno transitano davanti alla valle dei Vitelli e tirano dritto – del che le marmotte ringraziano – si combatte una guerra di posizione tra cervi e camosci. In palio c’è lo spazio vitale, che viene 'bruciato' giorno dopo giorno dall’aumento delle temperature. Il processo è monitorato quotidianamente dai ricercatori del Parco Nazionale dello Stelvio, che si estende su oltre 130mila ettari tra Lombardia, Trentino e Alto Adige. Un forziere di biodiversità in cima alle Alpi Retiche, con più di 300 specie vegetali e 260 animali, insetti esclusi. In base a come si distribuiscono sul territorio si può 'vedere' il cambiamento climatico ed analizzarne le sue conseguenze.
Il teatro di battaglia degli ungulati è proprio quest’angolo di Valtellina che si diparte dalla valle del Braulio e punta al passo dell’Ables. Dove le marmotte sbucano ovunque. Le sentinelle fischiano l’arrivo del nemico, cioè noi, gli incendiari del pianeta. «L’aumento della temperatura porta il cervo a cercare pascoli più alti, spingendo il camoscio e lo stambecco sempre più in alto – ci spiega Luca Corlatti, ricercatore dell’Università di Friburgo e responsabile del monitoraggio degli ungulati nell’area lombarda del Parco –. È una competizione per i pascoli, ma questa migrazione verso l’alto comporta una riduzione dell’habitat, perché in vetta diminuisce la superficie disponibile, e del cibo». Le conseguenze? Drammatiche. Dagli anni Novanta, è stato calcolato che nella sola area trentina del Parco i cervi sono aumentati del 50% e i camosci sono diminuiti del 60%. In quella lombarda si stanno valutando gli effetti del clima sui roditori.
«Il riscaldamento dell’atmosfera sull’arco alpino negli ultimi trent’anni presenta valori pari a tre volte la media mondiale dell’emisfero Nord – ci conferma Lorenzo Ciccarese, capo del dipartimento che studia i cambiamenti della flora per l’Ispra – e si prevede un ulteriore aumento di 2 °C in 40 anni, con effetti tre volte maggiori rispetto alla media mondiale». I segnali più eloquenti vengono dai ghiacciai, dimezzati dalla rivoluzione industriale. Lungo il sentiero che porta a quello dei Vitelli, le marmitte dei giganti ci parlano di un periodo lunghissimo in cui queste montagne furono modellate dall’acqua e dai ghiacci. Ebbene, è un passato da dimenticare: si alza anche qui la linea degli alberi, si spostano la schiusa delle gemme e la maturazione dei frutti, cambia la qualità del latte nelle specie erbivore.
Tuttavia, l’aumento delle concentrazioni di gas climalteranti nell’atmosfera non è il solo attentato perpetrato dall’uomo all’equilibrio dell’ecosistema. «Non sempre l’aumento della biodiversità è un valore » avverte Corlatti, riferendosi alla diffusione delle specie aliene, provocata dall’uomo. Il caso più eclatante è quello del Panace di Mantegazza, una pianta ornamentale segnalata in Valtellina. Proviene dall’Asia centrale e contiene sostanze tossiche: se sfiorata, provoca ustioni e addirittura la cecità. Fortunatamente, lungo il sentiero che punta al ghiacciaio dei Vitelli incontriamo solo primule, stelle alpine e tarassaco.
Quest’ultima è l’erba preferita da Fragola e Lampone: «Diamo nomi di frutta o di cantanti a ogni marmotta che catturiamo per applicare il microchip e verificare se sopravvive o se è costretta a migrare » ci racconta Bogna Sudolska, che collabora con il Parco Nazionale nel monitoraggio di questi roditori. Infatti, la valle delle marmotte è anche un laboratorio in cui si studia la resilienza degli animali. «Hanno grandi capacità di adattamento – commenta Corlatti – ma si esprimono nel lungo periodo e la novità del cambiamento climatico è la sua rapidità. In un Parco Nazionale, dove non c’è l’interferenza della caccia, si possono verificare i modelli previsionali che mettono in relazione le diverse variabili e capire quali comportamenti siano influenzati realmente dal cambiamento climatico». Diversamente dal passato, i cervi si trovano anche molto al di sopra dei 2300 metri, come le marmotte, e i camosci si spingono a tremila. Quanto alle specie vegetali, dichiara Ciccarese, «un aumento della temperatura di 2,2 °C può portare a una perdita del 25% delle aree della fascia alpina inferiore e di circa il 50% delle aree alpine comprese tra la fascia superiore e quella nivale. Un discorso analogo si può fare per le foreste. Infine le piante endemiche: spesso non dispongono di un’area estesa né della possibilità di rifugiarsi in habitat sostitutivi climaticamente adatti e, quindi, molto probabilmente le Alpi subiranno perdite critiche di biodiversità».
Come dice Corlatti, però, non sempre l’aumento della biodiversità è un vantaggio e per rendersene conto basta spostare lo sguardo a Oriente, oltre la valle di Zebrù, dove si rifugiano i cervi dello Stelvio. Da lì arrivano i lupi, dai Balcani è entrato lo sciacallo dorato, senza contare M49 e gli altri orsi che dividono il Paese. anche loro migrano e modificano l’ecosistema alpino, eppure l’alieno più temuto in queste ore sembra essere la zanzara. Dagli ottocento ai mille metri, di anno in anno si moltiplicano le segnalazioni, in relazione all’aumento della temperatura, che accelera i processi di crescita e la diffusione. Pessima notizia per chi cerca di fuggire al clima torrido delle città. Anche perché siamo di fronte a un allarme epidemiologico che ha già mobilitato il Triveneto: sulle Alpi si stanno diffondendo la zanzara tigre e la zanzara coreana. «La prima si è evoluta per adattarsi al sangue umano mentre la seconda continua a prediligere gli animali e in particolare i caprioli» conferma Annapaola Rizzoli della fondazione Edmund Mach, la quale studia la diffusione di questi insetti e dei virus di cui sono portatori, dalla febbre del Nilo, la Dengue o la Chikungunya.
Se la legge sulle specie esotiche invasive (DL 230/2017) può evitare il proliferare di gechi, lucertole e testuggini provenienti dai Paesi caldi e improvvidamente liberati dai loro proprietari, essa non può nulla contro gli insetti. Particolarmente se parlano italiano. «Anche le zecche nostrane – avvisa Rizzoli – evolvono in relazione al clima. Questi artropodi si trovano facilmente sopra i 1.500 metri, dove sono vettori di pericolose malattie infettive». Allignano in stalle e pascoli, dove trovano gli ospiti da parassitare. E possono infettare l’uomo: la situazione è critica nel Bellunese. Nei giorni scorsi si sono registrati alcuni casi di Tbe. «La meningoencefalite viene trasmessa dalle zecche – ci conferma Ermenegildo Francavilla, primario delle Malattie Infettive dell’ospedale di Belluno, centro di riferimento per questa emergenza – che hanno un ciclo vitale di tre anni, sono aiutate dall’aumento delle temperature medie e si trovano ormai anche in alta quota ». Benvenuti ai tropici: se andate in montagna, non dimenticate l’Autan.