«Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio (...) esse sono inseparabili. Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo. Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli, viverli! Nessun individuo (...) nessuna nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace». Giunto in quell’Israele che, idealmente condividendo lo sguardo di Mosè, egli aveva scorto dal monte Nebo, Benedetto XVI entra nel cuore delle «questioni irrisolte» alle quali aveva accennato domenica presso il fiume Giordano, esortando i cristiani ad «offrire il loro contributo » per la pace nel Medio Oriente segnato da «anni di violenze». La prima, tremenda questione è quella della pace che appare ancora lontana fra israeliani e palestinesi, e non soltanto tra loro, e non soltanto dentro i confini storici della Palestina. Sicché, appena toccato il suolo della Terra Santa, senza attendere di giungere nella Gerusalemme il cui nome «significa città della pace» (ma di una pace che ancora non abita lì), il pellegrino apostolico va oltre le esortazioni, si fa, letteralmente, supplice. «In unione con tutti gli uomini di buona volontà – dice infatti il Papa – supplico quanti sono investiti di responsabilità ad esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta alle enormi difficoltà, così che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti ». Benedetto XVI si rivolge al presidente israeliano Shimon Peres, al premier Benjamin Netanyahu e agli altri leader politici che lo hanno accolto, riconosce (e lo fa praticamente sino a sera) i diritti di Israele, il suo bisogno di sicurezza, ma non esita a sottolineare che quest’ultima, come accennavamo sopra, è inseparabile dalla giustizia. Una giustizia che per essere stabile e piena assieme alla pace che le è sorella nasce dalla «conversione dei cuori» (un’espressione che ritorna più volte, in questo pellegrinaggio). I cuori non soltanto dei politici, ma anche dei diversi capi religiosi che il Papa invita con forza a «vivere insieme in profondo rispetto» e senza alimentare «divisioni e tensioni», nonché i cuori di tutte le «comuni famiglie di questa terra». A quella della pace si è intrecciata un’altra grande questione, quella dell’antisemitismo («totalmente inaccettabile») che, dice Benedetto XVI, «continua a sollevare la sua ripugnante testa in molte parti del mondo», tanto che «ogni sforzo deve essere fatto per combatterlo dovunque si trovi ». Un chiarimento totale e si spera definitivo dopo le polemiche sul caso del «negazionista » Williamson, chiarimento che il Papa ha suggellato assicurando la propria preghiera «affinché l’umanità non abbia mai più ad essere testimone di un crimine di enormità simile» a quella della Shoah. Shoah che il Papa ha evocato e onorato con accenti commossi nella visita al Memoriale dello Yad Vashem. «Possano i nomi di quelle vittime non perire mai! – ha esclamato Benedetto XVI – Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate!». E poi, com’è nel suo stile, ha allargato l’orizzonte al tempo nostro, e al futuro: «La Chiesa cattolica (...) prova profonda compassione per le vittime ricordate» nello Yad Vashem «e alla stessa maniera si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione. Come Vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro» egli ribadisce al pari dei predecessori «l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace». Impossibile, crediamo, essere più chiari e indiscutibili di così, davanti al Memoriale dal quale «sale perenne verso l’Onnipotente il grido di Abele».