Delle immagini da Stoccarda quella che più sbalordisce non è la scuola circondata da teste di cuoio, né la colonna di ambulanze accorse inutilmente. Invece ti trafigge la foto di un bambino sui dodici anni, con i capelli corti; un bambino sorridente che brandisce un trofeo vinto nel torneo di ping pong, a scuola, cinque anni fa. E che quel bambino felice sia Tim Kretschmer, 17 anni, il ragazzo che ha massacrato dieci compagni della sua vecchia scuola e altre cinque persone prima d’essere ucciso, è il segno di quanto sia profondo il mistero di un uomo; un abisso, in cui nemmeno padre e madre e fratelli a volte riescono a scandagliare. Il secondo elemento che quasi inquieta, nella tragedia tedesca, è l’ordine del quartiere e della scuola del massacro. A Winninden, satellite di Stoccarda, la Albertville Reichschule pare un istituto modello, così nuovo e circondato da un verde ben curato. Il sito on line del quotidiano Bild si sofferma sui pavimenti tirati a lucido, sull’ordine dell’aula d’informatica. Gli altri, i compagni, còlti dai flash mentre se ne scappano a casa atterriti, hanno facce poco più che da bambini. Da quale antro sbuca allora la brama di nulla che ha spinto un ragazzo, uscito da quella scuola l’anno scorso, a presentarsi un mattino vestito di nero e armato da giustiziere, come in un film, Elephant, che forse aveva visto? Follia, certo. Solo una psicosi può spiegare che un adolescente covi un simile odio, e una mattina, freddo, passi all’azione. Un folle, come folle anche quel Michael da Kinston, Alabama, che nelle stesse ore ha ucciso sua madre e nove altri, prima di spararsi. Ma proprio la coincidenza del giorno, e della ferocia, simmetrica ai due capi del mondo, provoca: follia, d’accordo, ma in quale humus si abbevera una simile ansia di morte? Nell’orizzonte di decorose villette che fa da sfondo a entrambi massacri, di cosa si era nutrita finora la forza oscura che covava in quei due, apparentemente normali? Solo, a Stoccarda, un elemento come una nota stonata. I genitori di Kretschmer tenevano in casa diciotto armi. Regolarmente denunciate. E però, diciotto armi sono un museo in casa, una presenza incombente. Stava a osservare, il ragazzo, quelle canne lucenti, ben pulite? Cose custodite con cura, maneggiate con cautela e compiacimento. Non ne era forse affascinato, il bambino? Strano ragazzo, pareva che crescendo qualcosa gli pesasse addosso; forse una ostinata sensazione di solitudine, forse la precoce sensazione di essere in qualche modo diverso, con diversi pensieri. Gli amici che avvertono l’alterità, e ti evitano; la parola umiliante di una ragazza, magari, l’unica che ti sta a cuore. E cova, cova il male, e cresce. Perché un giorno la tristezza, coltivata e già gonfia di rabbia, si è soffermata su quelle pistole? Già, le pistole. Le armi, almeno, sono cosa semplice: basta premere il grilletto. È facile. Tanto è paziente il lavoro di crescere un bambino, e farne un uomo, tanto è rapido e semplice sparare. Non c’è bisogno neanche di essere forti. Spari, e l’altro è cancellato. («Non siete ancora tutti morti?», ha urlato Tim in un’aula, quasi stizzito). E quante volte quel folle progetto avrà nella sua stanza, la sera, al buio immaginato? Non un amico a dirgli: cosa fai lì, vieni, non uno sguardo in casa a accorgersi dell’abisso che si allargava. Il tarlo della follia, nel silenzio scava indisturbato. Nessuno, in quelle vie ordinate, nel lungo inverno e fra vicini borghesemente intenti a badare ai fatti propri, nessuno che veda. La quarta strage in una scuola in pochi anni, in Germania – in America, hanno perso il conto. Cos’è? Forse la follia declinata nell’Occidente del 2009: decorose città, legioni di villette graziose. Ognuno dentro solo davanti a un compu-ter, ognuno monade che vive per sé. E la malattia di un ragazzo che in questa anonimia si installa, padrona, e divora.