sabato 17 maggio 2014
​L'andamento del Pil in molti Paesi dimostra che la cura della Troika non ha funzionato
                  di Leonardo Becchetti 
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Con i suoi riflessi piuttosto lenti rispetto al dinamismo delle altre banche centrali (Fed, Bank of England, Bank of Japan) l’europea Bce si è giustamente dichiarata preoccupata qualche giorno fa delle dinamiche del tasso di cambio e dell’inflazione, che è ben lontana dall’obiettivo del 2% oltre che pericolosamente vicina alla deflazione per molti paesi dell’Unione europea, e si è detta "pronta ad intervenire" a Giugno. La sua lentezza deriva dalla difficoltà di mettere d’accordo partner con economie eterogenee, un limite cui Draghi cerca di sopperire "manovrando col pensiero", ovvero influenzando le aspettative dei mercati con il semplice annuncio della disponibilità ad intervenire. Intanto l’Italia rallenta, con un Pil trimestrale che ha deluso le attese ed è tornato in negativo (-0,1%). Mentre il Giappone fa registrare un +5,9% su base annualizzata. Sarà che avevamo ragione a parlare di politiche monetarie espansive e dividendo monetario della globalizzazione? Le difficoltà e i limiti dell’Europa sono stati messi bene in luce di recente dal premio Nobel Joseph Stiglitz in una sua conferenza a Roma davanti agli studenti universitari e ai vertici della Confindustria sul tema «<+CORSIVOIDEE_BAND>Can the Euro be saved?<+TONDOIDEE_BAND>», l’euro può essere salvato? Per Stiglitz l’euro è un progetto politico lasciato a metà in una situazione che, come tale, ha poco equilibrio economico. Le cause della sua crisi hanno radici profonde nei mercati finanziari che, ben lungi dal replicare il modello della perfetta razionalità, hanno creduto, subito dopo la nascita della moneta unica, che l’eliminazione del rischio cambio coincidesse con quella del rischio Paese. Ovvero, che acquistare bond greci fosse la stessa cosa che comprare bond tedeschi. Salvo poi cambiare precipitosamente avviso. Vista dalla prospettiva delle incertezze della politica si può però argomentare che ci sia stata un’apertura di credito verso il processo politico che è venuta meno nel momento in cui, di fronte alla crisi greca, i partner europei hanno fatto chiaramente capire di non essere disposti ad utilizzare ciambelle di salvataggio in modo automatico. Una crisi caratterizzata da debolezza della domanda interna e rischio deflazione (che aumenta pericolosamente il fardello dei debitori) è stata affrontata con la ricetta "mercantilista" della svalutazione salariale come soluzione migliore per rilanciare l’export e colmare gli squilibri commerciali tra i Paesi della moneta unica. Ma la svalutazione salariale indebolisce ancora di più la domanda interna, producendo risultati opposti a quelli attesi. Ed è quantomeno avventato parlare di successo greco solo perché oggi la Grecia ha una timida crescita, quando il Paese ha perso dall’inizio della crisi un quarto del Pil e visto aumentare il proprio rapporto debito/Pil dal 148,3% del 2010 al 175,1% del 2013, nonostante due cancellazioni parziali di debito che sono riuscite nell’incredibile impresa di lasciare a bocca asciutta i creditori senza alleviare il fardello di obbligazioni del Paese. Ma non è solo la Grecia il problema, perché il rapporto debito/Pil è peggiorato in tutti i Paesi oggetto di aggiustamento. In Portogallo è passato dal 94% del 2010 al 124% del 2012, fno al 129% del 2013. In Irlanda dal 91,2% del 2010 al 117,4% del 2012, fino al 123,7% del 2013. In Spagna dal 61,7% del 2010 all’ 86% del 2012, fino al 93,9% del 2013. A voler essere più neutrali possibile le possibilità sono soltanto tre. O il malato non segue la cura. o bisogna avere pazienza e la cura dopo un iniziale peggioramento ridurrà la malattia (ma quando e con quante sofferenze?), oppure o la cura è sbagliata. Stiglitz sceglie senza dubbio la terza risposta e afferma che la soluzione adottata dalla Troika composta da Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Banca mondiale non avrebbe passato l’esame di economia all’università. Rileva anche che gli americani sono molto contenti del fatto che il cambio dell’euro oggi sia così elevato, ma forse, aggiungiamo noi, tale soluzione è stata la ricetta pilatesca di un’unione profondamente eterogenea (con regioni in piena occupazione ed alte con tassi di disoccupazione elevatissimi) che non trova il consenso per adottare una politica monetaria, fiscale e del cambio a taglia unica, in grado di accontentare tutti. Provocatoriamente il Nobel ricorda che John Maynard Keynes aveva proposto di penalizzare anche le situazioni di surplus eccessivo in regimi di cambi fissi, e non solo quelle di deficit, constatando poi che l’avvento dell’euro ha provocato crisi del tipo di quelle dei Paesi emergenti in Europa. Da questo punto di vista appare sgradevole il richiamo al rispetto delle regole del "Fiscal Compact" da parte di Draghi verso i Paesi del Sud. In una partnership alla pari le regole devono rispettarle tutti (a memoria delle violazioni passate delle regole di bilancio di Germania e Francia e di quelle attuali dei francesi). E il mancato rispetto degli obiettivi di inflazione della Bce e il surplus commerciale tedesco al di sopra della soglia del 6% sono oggi fattori che rendono difficile il rispetto della regola di bilancio dei paesi del Sud. Ci aspettiamo che il nostro premier e il ministro del tesoro che sono pienamente consapevoli del problema facciano riferimento a questi elementi per creare in Europa un nuovo equilibrio di pari dignità tra tutti i partner. I Paesi europei si sono lanciati nell’avventura dell’euro come quel generale che, per dimostrare la propria audacia e determinazione, distrugge i ponti alle spalle per tagliarsi la possibile ritirata del nemico e poi si accomoda a prendere un tè invece di affrontarlo. La sensazione è di essere pericolosamente in mezzo al guado, lontani sia dalla sponda da cui siamo partiti che da quella di un’unità politica a cui dobbiamo necessariamente approdare se vogliamo salvarci. In mezzo al guado è impossibile farlo perché l’ipotesi che il solo varo dell’euro avrebbe accelerato il processo di omogeneizzazione economica di Paesi con diverse storie e culture è stata clamorosamente rigettata dall’evidenza storico-empirica: basti pensare alle differenze profonde che si registrano in Europa in fatto di tassi di disoccupazione. Se si vuole portare a termine il percorso sono invece necessari: un processo di armonizzazione fiscale, in modo da evitare l’attuale inefficiente e squilibrata allocazione dei capitali e la concorrenza fiscale nell’area della moneta unica; una politica fiscale europea coraggiosa per aiutare i Paesi in difficoltà; una politica monetaria più espansiva. Il tema della concorrenza fiscale è particolarmente spinoso perché diventa difficile, con la moneta unica, essere più attraenti per gli investimenti esteri rispetto ai paradisi fiscali interni all’area, o in confronto a Paesi dell’Est Europa come ad esempio l’Estonia, che hanno un costo del lavoro molto più basso e un rapporto debito/Pil del 10% (e quindi ampi margini per proporre agevolazioni fiscali alle imprese). L’Unione europea va bene a Nord e ad Est, ma male a Sud. La ridiscussione delle regole dell’Ue ipotizza pari dignità tra i partner e risorse ideali che vanno molto oltre l’attuale approccio ragionieristico, per il quale il cittadino di un Paese non si dichiara disposto a spendere nemmeno un euro per salvarne uno di un altro. Senza ritrovare gli slanci ideali e la pari dignità tra i Paesi che hanno portato alla nascita dell’Europa, sarà difficile attivare quelle risorse che la cooperazione potrebbe invece mettere a disposizione per uscire dall’impasse.
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