Per capire che cos’era il cinema quando c’era la crisi – quell’altra, quella del 1929 – bisogna rispolverare un film di quando la crisi non c’era ancora.
La folla di King Vidor uscì nel 1928, un anno prima che a Wall Street si verificasse il disastro che sappiamo. Era la storia di un piccolo uomo uguale a tanti altri, al quale il destino sembra sottrarre ogni minima speranza di felicità. Che cosa gli resta, alla fine? Alla fine gli resta il cinema: l’ultima volta che vediamo il protagonista è come se lo schermo fosse diventato uno specchio e in quello specchio il pubblico contemplasse se stesso. Il povero sventurato è lì in mezzo e, nonostante tutte le sue tragedie, sta ridendo, probabilmente sollecitato dalle gag di una comica. Il cinema era illusione (lo è sempre stato, basta saperlo) e, insieme, un paradossale esperimento di comunità. Spesso gli spettatori non si limitavano a guardare la pellicola, ma si mettevano anche a cantare sulle note del pianoforte che accompagnava le immagini. Un divertimento semplice, che costava pochi spiccioli, ma impediva di sentirsi soli. Il resto, mediaticamente parlando, lo faceva la radio, che proprio allora prendeva posto in tutte le case. Ne era consapevole il presidente Roosevelt, che con i suoi celebri «discorsi del caminetto» infondeva fiducia in un futuro altrimenti incerto. Altri tempi. Altra crisi, appunto. A più di ottant’anni di distanza abbiamo trovato forme di consolazione diverse e, a quanto pare, il cinema non rientra fra queste. Non in Italia, almeno, come suggeriscono le cifre presentate ieri dall’Associazione Nazionale Esercenti Cinema (Anec). Lì per lì il saldo sembrerebbe positivo, con 268 schermi in più nel 2012 rispetto al 2003, ma non ci vuole molto per scoprire il trucco: l’incremento, apparente, è effetto della diffusione dei multisala. In realtà i cinema che nell’utlimo decennio hanno chiuso i battenti sono 712. Il resto lo ripetono, con inquietante insistenza, i dati delle ultime settimane: nel nostro Paese al cinema si va sempre meno. Ognuno può dare la spiegazione che vuole e la penuria di sale può avere la sua importanza. Poi c’è l’aumento dei i biglietti (molto contenuto rispetto all’inflazione, avverte l’Anec, ma intanto è diminuito il potere d’acquisto), e poi la maggior offerta televisiva, per non parlare della dilagante pirateria informatica. Quello che qui interessa è però l’effetto. Meno cinema in sala equivale, in definitiva, a più cinema in casa. Il che, spesso, significa più cinema in solitudine. Vivesse oggi, il protagonista della
Folla non si confonderebbe con il popolo dei
nickelodeon (i cinema di periferia dove si entrava pagando un nichelino), ma consumerebbe ore e ore di intrattenimento davanti allo schermo di un computer, preferibilmente portatile. Film e non solo, perché nel frattempo le serie televisive hanno acquisito dignità autonoma e i videogiochi, fino a poco tempo fa guardati con supponenza, stanno conquistando posizioni in termini di raffinatezza e complessità. Il risultato finale è sempre lo stesso ed è straordinariamente simile al controsenso studiato dal politologo Robert Putnam nell’ormai classico
Bowling Alone: anche il bowling, sport “sociale” per eccellenza, è diventato un passatempo da praticare per conto proprio. L’America del ’29 non uscì dalla crisi grazie ai film, per quanto Hollywood non abbia mancato di dare, a modo suo, un contributo non disprezzabile. Quale ne sia la causa, il rarefarsi delle sale nostro contemporaneo è tuttavia un indizio di insofferenza verso tutto ciò che riguarda la collettività, la condivisione, la passione per il bene comune. Non è il caso di farne un dramma, forse. Resta il fatto che, dissolta la comunità, quel che rimane è il branco. Il seguito, purtroppo, è sempre un brutto film.