Che i figli paghino per le colpe dei padri è una inciviltà dalla quale il mondo stenta a liberarsi. Chi nell’anno del centenario ha riletto Dante può rammentare la sdegno e l’invettiva (“non dovei tu i figliuoi porre a tal croce./Innocenti facea l’età novella…”). Che i figli paghino per la colpa della madre, dalla quale non possono neppure esser separati quando essa vien messa in prigione, perché stanno ancora nel grembo, è una crudeltà dalla quale il nostro codice penale ci ha finora scampati, rinviando obbligatoriamente l’esecuzione della pena.
Finora, ho detto, perché adesso si vuol cambiare. Si vuole che il rinvio della galera a più tardi non sia più obbligatorio per le donne incinte o col bimbo fino a un anno, ma solo facoltativo, secondo che al giudice parrà. Cosa che già funziona se i bimbi hanno passato l’anno anno e stanno sotto i tre, e devono andare in prigione insieme con la mamma condannata. È questo il colpo di genio del Ddl “sicurezza” per salvare i borselli sul metrò (un’ossessione televisiva) dall’astuzia delle mamme ladre, nel testo blindato in Commissione nei giorni scorsi.
Dunque donne incinte, puerpere, mamme col lattante al seno, o il bimbo svezzato, potranno finalmente finire dentro una prigione, col figlio. Uno sprazzo di pietà vuole che sia un “istituto a custodia attenuata per detenute madri”, cosa nell’ordinamento penitenziario deve assomigliare a una specie di asilo nido invece che ad una galera. Se poi il figlio ha più di un anno, la detenzione in queste case per le mamme condannate è solo facoltativa e non più obbligatoria, e ciò significa che secondo il sistema ci possono essere bambini il cui orizzonte nell’età d’infanzia è disegnato da celle e sbarre.
È civiltà questa? A nessuno viene in mente di chiedere che cosa accade a un figlio nel periodo della gestazione nel grembo, se la mamma patisce dolore, emozioni di ansia, paura, disistima, abbandono? Le neuroscienze fanno evidente quanto ciò influenzi lo sviluppo fetale, perché tutto ciò che la madre prova raggiunge il bambino, con una connessione emotiva non meno intensa di quella che ne alimenta la vita fisica attraverso il cordone ombelicale. E dopo il parto, il primo anno di vita è proprio quello in cui la costruzione e lo sviluppo del sistema nervoso si struttura in un picco prodigioso. Intercettare questo sviluppo, che è qualcosa di unico, che sa di miracolo nella vita, con esperienze di deprivazione, di separazione, di limitazione è violenza contro la vita innocente.
Del resto, la riflessione giuridica e umana sui problemi della punizione delle madri condannate che non possono affidare a nessuno i figli piccoli e per le quali la soluzione residua, a causa dell’età dei bimbi e delle sfavorevoli ipotesi facoltative può risultare ancora la cella, ha condotto nei decenni passati i ministri della giustizia a virtuose parole, parole, parole che gli attuali umori vendicativi della sicurezza dei borselli in metrò vanno trasformando in grida nel deserto.
Qualche graffito: Clemente Mastella (2007) al convegno “Perché nessun bambino varchi più la soglia del carcere”; Angelino Alfano (2009) «un bambino non può stare in cella»; Paola Severino (2013) «in un Paese moderno è necessario offrire ai bambini, figli di detenute, un luogo dignitoso di crescita che non ne faccia dei reclusi senza esserlo»; Annamaria Cancellieri (2014) «stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bambini in carcere»; Andrea Orlando (2015) «entro la fine dell’anno nessun bambino sarà più detenuto. Sarà la fine di questa vergogna contro il senso di umanità»; Alfonso Bonafede (2019) «ho pianto quel giorno del 2018 quando la giovane detenuta gettò i suoi due figli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia»; Marta Cartabia (2022) «Mai più bambini in carcere, anche solo un bambino ristretto è di troppo».
E adesso? E adesso?
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