Sono passati diversi anni da quando Joseph Ratzinger, allora non ancora Papa, lanciò un grido d’allarme sulla chiusura di una ragione che, tagliando la sua relazione con la dimensione spirituale - e più specificatamente con la fede - finisce per non poterci più aiutare ad affrontare le grandi questioni della vita insieme. A molti sembrò un richiamo teorico, dogmatico, sconnesso dalla concretezza delle cose.
Forse per questo il richiamo di Ratzinger è rimasto ampiamente inascoltato. Anzi, negli ultimi anni le cose sono addirittura peggiorate. Dopo l’avvento dei social abbiamo ancor più rinunciato alla possibilità di usare la ragione per ritrovarci attorno a ciò che vale. E ciò proprio mentre, negli anni della globalizzazione, rendevamo interdipendenti mondi culturalmente molto diversi, con l’ipotesi che la tecnica da un lato e gli interessi dall’altro sarebbero stati capaci di tenere insieme il mondo. Un’illusione a cui molti, nonostante tutte le evidenze avverse, continuano tenacemente a credere.
Adesso si vedono i risultati. Il mondo assomiglia ogni giorno di più a un campo di battaglia. La sfera pubblica è come un bazar caotico dove tutti gridano, senza nessun vincolo di verità. E nessuno ascolta. Il venir meno di criteri per distinguere il vero dal falso crea un mondo pieno di ingiustizie e solitudini. Terreni adatti per la rabbia e l’odio. Al punto che il conflitto e la violenza sembrano oggi le uniche chiavi per dirimere le controversie. Tanto a livello micro che macro. Il mondo sembra davvero aver perso la testa.
La crisi della leadership politica è il sintomo di questo smarrimento della ragione. Che è crisi del pensiero, come intelletto e spirito. Più che aiutare i popoli a tracciare la via verso il loro futuro, i politici oggi sono come funamboli che, in equilibrio precario su un filo sottile, sono tutti concentrati a non precipitare nel vuoto. Ma nulla di più.
Si prenda la questione ogni giorno più drammatica dell’Ucraina. Da un lato, la ragione ci dice che è giusto opporsi all’invasore. Non si può permettere la flagrante trasgressione del diritto internazionale. Ma la stessa ragione ci dice che, mentre si resiste, è altresì necessario sforzarsi di aprire vie che possano portare a forme di soluzione negoziale. Eppure quasi nulla è stato fatto in questa direzione in 25 mesi di guerra.
Se la soluzione fosse facile, non esisterebbe il problema. E proprio per questo serve la ragione: per immaginare una via che si può scoprire solo se si è capaci di guardare un passo più in là. Di non essere inchiodati allo status quo, di cogliere le tante sfumature della realtà. Abbiamo dimenticato che è proprio questo il lavoro che la ragione - quando non è ridotta a calcolo e interesse - ė capace di fare.
La ragione, lo insegna Romano Guardini, è l’organo della novità, l’impulso ad andare al di là, la capacità di pensare ciò che ancora non esiste. Ma che pure esiste come possibilità ancora inespressa. Per questo essa riesce ad aprire biforcazioni altamente improbabili, al di là ogni calcolabilità o pretesa oggettività scientifica, sfuggendo così a ogni automatismo. Fosse anche quello del rispondere “colpo su colpo” agli attacchi dei violenti. È perché ci sollecita a trasformare la semplice esistenza in esistenza buona, e l’esistenza buona in esistenza migliore, che la ragione non si riduce a mero organo tecnico.
Questa eclissi della ragione è un problema ovunque, ma è ancor più drammatica per l’Europa che ne ha sempre fatto il suo punto di forza. Forse, si potrebbe arrivare ad affermare che proprio la perdita del suo rapporto fecondo con la ragione è all’origine della crisi europea.
L’Unione Europea rimane infatti un progetto incompiuto. Dove i piccoli interessi nazionali non riescono a conciliarsi con l’evidente necessità storica di essere uniti per stare al passo con i grandi blocchi che esistono oggi nel mondo. Dove la logica di breve periodo non permette di avviare quei programmi che portano frutto nel lungo termine. Dove l’egoismo e l’individualismo non riescono a riconoscere il legame costitutivo con il bene comune. Tutte questioni che, per essere risolte, hanno bisogno di quella ragione che abbiamo voluto dimenticare.
Molti cittadini conservano in cuor loro la speranza che l’Europa possa essere capace di prendere una seria iniziativa di pace, trovando il modo per rompere la spirale del conflitto tra Russia e Ucraina. Ma come è possibile che ciò accada, quando l’Europa sembra aver perso la fiducia nella ragione che l’ha guidata nel corso di millenni? Non si sottovaluti il rischio dell’inerzia. In un continente che pensava di non dovere più sentire il rumore delle armi, la delusione rischia di trasformarsi in sfiducia. Concretamente, in antieuropeismo.
Ecco allora che le elezioni del prossimo giugno appaiono come un appuntamento storico. Ai candidati e ai leader che animeranno le prossime settimane di campagna elettorale chiediamo dunque con forza: non slogan ma pensiero.
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