sabato 11 luglio 2009
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La vita eterna? In un certo senso è diventata un’altra cosa. E questo anche perché è cambiata l’immagine, ma soprattutto la presenza della morte. Ancora ricordo i risultati di una ricerca statistica inglese sulla città di Exeter. L’autore diceva: a 25 anni la metà del campione studiato era già morta. E i dati, a quanto ricordo, si riferivano al Settecento. Eravamo già lontani dall’immagine della morte del medioevo, quando era sempre e quasi naturalmente presente. Il cimitero non era un luogo lontano dalla vita quotidiana, tanto è vero che nei cimiteri si commerciava, ci si prostituiva… Oggi? Siamo separati dai cimiteri e dalla morte. Culturalmente è vissuta come un evento imprevedibile, che ci sorprende ogni volta che la incontriamo. Nei secoli e nei millenni che stanno alle nostre spalle la durata della vita si è, pur lentamente, allungata e la morte è quasi scomparsa dai primi 20 o 30 anni di vita. Certamente si muore negli incidenti stradali, nei posti di lavoro, ma di queste morti non si parla più come di un prodotto del destino, bensì di carenze, di errori, di circostanze più o meno imprevedibili. In conclusione, la morte è ancora una scomoda inquilina della vita, ma un’inquilina il cui arrivo è sempre meno prevedibile per cui, alla fine, la cultura della morte è profondamente diversa da quella di un tempo. Certamente si deve morire, ma la morte viene associata a una vecchiaia vissuta come un evento molto lontano che non ci riguarda da vicino. Già tutto questo contribuisce a una ricostruzione del nostro rapporto con la religione. Un tempo religione, morte e vita eterna erano collegati psicologicamente. Oggi la religiosità, spesso molto lontana dal problema della morte, diventa un evento psicologicamente più positivo. Gli aspetti sociali, culturali e psicologici della religione subiscono quindi importanti trasformazioni. Ma si sta facendo strada un altro problema che interessa da vicino la religione ed è almeno in parte il prodotto di queste secolari trasformazioni. La vita, prolungata dai progressi delle scienze umane, comincia ad essere vissuta come psicologicamente eterna. Mi resi conto dell’esistenza di questo problema anni or sono quando partecipai a una trasmissione televisiva insieme a un biologo americano il quale osservò: «I progressi della genetica mi fanno pensare che qualcuno di quanti nascono ora sarà vivo fra 400 anni». Un’affermazione che forse contiene frammenti di verità, ma che è molto importante anche dal punto di vista culturale. Quindi, si comincia a parlare di una vita che, sul piano psicologico, anche se non nel nostro quotidiano, diventa fisicamente eterna. Sollecitato da questa considerazione cominciai a riflettere, e dentro di me si affollarono le domande. Ma che ne sarà, nella cultura di uomini e donne di quel futuro, della vita religiosamente eterna? Come saranno consolati gli esseri umani di fronte ad una presunta o presumibile eternità fisica, satura anche di sofferenze e dolori? Cambia veramente il significato del concetto di vita eterna? Rimane, in un mondo così drammaticamente diverso, la necessità di dare una risposta religiosa ai nostri problemi. Ma come fare di fronte a una vita psicologicamente vissuta come eterna, da un uomo più solo che mai? E probabilmente impreparato ad affrontare una realtà così diversa? Si tratta di formulazioni nuove di problemi che filosofia, teologia e psicologia hanno sempre affrontato, o di problemi nuovi per questa civiltà così differente?
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