Gentile direttore, trovo rilevante il suo interrogativo del 6 luglio scorso, quando a proposito della crisi euro-greca e in risposta ai lettori, ha chiamato in causa personalità politiche «che abbiano ancora voglia di pensare la vera Europa e di battersi per realizzarla, facendoci sentire idee e non signorsì o schiamazzi». Il mio punto di vista è quello di un laureato in Scienze della Comunicazione che ha dedicato alcuni anni della sua formazione proprio a ricerche sul modo in cui la stampa tratta i temi europei. Questa Europa – non sono io ad affermarlo, ma Jürgen Habermas – è in profonda crisi e, aggiungerei, si tratta di una crisi di lungo corso. Qualche giorno fa ho riletto con interesse una riflessione di Albert Camus, datata 1955 e ancora attuale, sulla inadeguatezza delle ideologie nate nell’Europa di fine Ottocento a comprendere il mondo uscito dai due conflitti mondiali. Aggiungo qualche considerazione personale. L’Europa di oggi è vittima del suo passato. Le superpotenze che la circondano costituiscono una pericolosa costellazione di poteri, in connessione e bilanciamento reciproco. Alla fine della guerra fredda, l’illusione di un mondo libero, unito dalla forza omologante del mercato, ha ceduto gradualmente il passo a un Pianeta segnato tragicamente da nuovi conflitti (che solo una lettura superficiale attribuisce soprattutto a motivi religiosi). La politica europea di oggi pone il suo operato su un piano tecnocratico ed economico. La visione di una sfera pubblica europea, inquadrata entro una definizione comune delle regole, una politica unica, una stessa Costituzione, passa inesorabilmente in secondo piano. O quantomeno ci si ferma a un livello teorico, in cui veti di varia natura ostacolano i passi in avanti del progetto politico europeo. Per rispondere alla sua domanda, direttore, penso che ai politici europei di oggi manca la forza, e se vogliamo il carisma, per rispondere efficacemente alle sfide del mondo attuale. Non sono peraltro legittimati da un popolo europeo; i loro elettori, infatti, sono cittadini di Stati sorti prima della Ue. Guardando al futuro, si potrebbe ripartire proponendo l’inserimento della materia di Educazione civica europea nei programmi scolastici di tutti gli Stati membri. Ma non vedo politici che portino avanti idee serie o, meglio, campagne elettorali su questo tema. Ottimisticamente dico che si potrebbe coltivare l’idea di Europa unita nelle nuove generazioni, partendo dalla scuola primaria, anche se ciò comporterà uno sforzo considerevole.
Massimiliano Nespola Catanzaro L’Europa unita, caro amico lettore, è stata sinora uno strano dono, frutto dell’intuizione, del realismo e della visione di grandi personalità e del lavoro (contraddittorio) di uomini e donne di governo che spesso, e oggi persino più di ieri, si dimostrano ancora prigionieri di interessi e logiche proprie dei singoli Stati membri. Lei lo ricorda bene. Ma a mio parere il fatto più grave e doloroso è che, in questa fase, l’Unione Europea comincia a essere sentita da tanti addirittura come una maledizione. E questo non è solo assurdo, è pericoloso. Ecco perché lei ha ragione nell’aggiungere la sua voce a quanti indicano con passione la via dell’«educazione civica» (ma potremmo dire dell’educazione tout court) come uno degli strumenti indispensabili alle nuove generazioni di cittadini della Ue. Dico che si tratta di “uno degli strumenti”, perché non sono tra quelli che sottovalutano i passi avanti compiuti sul terreno dell’integrazione economica. Li considero importanti – tant’è che ne vorrei di più, di più decisi e di più rapidi (ad esempio sul piano dell’armonizzazione fiscale) –, ma non li ritengo (e i fatti lo confermano) sufficienti. La dimensione economica è fondamentale e però non basta a contenere tutta la bellezza e la convenienza dello “stare insieme”, del comporre in armonia le differenze. Vale per le famiglie umane, come per le famiglie di nazioni. Che funzionano e sono felici e prospere quando ci sono regole, gerarchie e solidarietà utili, non subalternità precostituite. Senza un amore più grande di quello solo per sé (per il proprio gruppo, per la propria porzione di terra…), cioè senza valori forti condivisi e interiorizzati, senza opzioni, pratiche e protagonismi comuni non si resta uniti e non si è capaci di futuro. Non si ha politica, buona politica. Non si riesce a governare bene – lo stiamo verificando confusamente e anche duramente in questi anni – neppure un florido mercato unico e una potente moneta comune, ma si finiscono per subire calcoli e impostazioni parziali e per rendere squilibrata, brutta, controproducente persino una «grande avventura» che tutti ci riguarda e che da tutti dovrebbe essere compresa e condotta con la stessa convinzione e la stessa dignità. So di non scoprire nulla eppure di sembrare un sognatore, ma credo e dico che l’Europa ripartirà soltanto se ricominciamo oggi – oggi, non domani – a pensarla e viverla come una conquista attiva, compito e patria di cittadini motivati, che si sentono europei perché italiani o tedeschi o greci, ma soprattutto perché davvero europei. Cioè gente che, per antica e affinata vocazione e per saldo e ritrovato umanesimo nutrito di cultura biblica e cristiana, sa farsi posto nel mondo e sa far posto al mondo.