È di una tristezza lacerante constatare che nel confronto tra Israele e i palestinesi di Gaza si è sviluppato, tra i tanti possibili, proprio lo scenario più tragico e banale. Finita la tregua di sei mesi, Hamas ha orchestrato a colpi di missile (più di 200 in pochi giorni) la solita provocazione contro le città di Israele. Il governo dello Stato ebraico, ovvero la coppia Olmert-Barak e la coalizione Kadima- Partito laburista, prima ha cercato di resistere, poi ha lasciato mano libera ai militari. I palestinesi ora piangono più di duecento morti e giurano vendetta, gli israeliani annunciano altre azioni se al lancio di missili non sarà posta immediata fine. Tutto già visto, tutto già scritto. E tutto tragicamente inutile. Nulla cambierà dopo l’ennesima strage. Hamas ha ottenuto ciò che voleva: un lutto esemplare per infiammare il resto del mondo arabo (la Lega Araba ha già chiesto all’Onu di pronunciarsi 'sull’aggressione israeliana a Gaza'), ottenere da esso nuovi fondi e mostrare ai palestinesi chi davvero ha cuore per combattere. A gennaio termina il mandato del presidente Abu Mazen, il leader di Al Fatah non si sa se più moderato o più debole, ed è chiaro che nella Striscia c’è chi vuol lucrare su quella scadenza e su questi morti 'esemplari'. Poco importa ad Hamas se il suo eventuale controllo dell’Autorità palestinese resterebbe lettera morta, un Governo di carta incapace di intendere e di volere, sprofondato nel più completo isolamento internazionale. Israele non può certo permettere che una parte del proprio territorio (quella, appunto, nel raggio di tiro dei Qassam) diventi di fatto inagibile, e il Governo Olmert, uscito piegato dalla guerra in Libano del 2006, non poteva mostrarsi arrendevole agli occhi degli israeliani che in febbraio andranno a votare e già sentono il fascino bellicoso di Bibi Netanyahu, leader del Likud e ministro che nel 2005 si dimise proprio per protestare contro il ritiro da Gaza deciso da Sharon. Anche qui, però, la battaglia elettorale e le vecchie abitudini hanno la meglio su ogni altra considerazione: tutti sanno che i 110 aerei che ieri hanno colpito Gaza non fermeranno i missili di Hamas, così come non poteva fermarli il blocco economico della Striscia decretato da Israele nel 2007, dopo che Hamas aveva ricacciato in Cisgiordania i rivali di Al Fatah. Altrettanto chiaro è che Israele non può permettersi di rioccupare la Striscia, con il suo milione e mezzo di abitanti e le migliaia di militanti armati di cui Hamas dispone. Un giorno, forse, qualcuno spiegherà perché non si è concretizzata l’unica iniziativa che avrebbe potuto e ancora potrebbe imprimere una svolta: la firma di un accordo tra Israele e il Governo di Al Fatah in Cisgiordania. Ehud Olmert e Abu Mazen si sono incontrati, il dialogo è progredito, Israele ha compiuto gesti non secondari come la liberazione di centinaia di palestinesi e lo sgombero di alcuni insediamenti illegali a Hebron. Ma a un vero accordo non si è giunti, anche se molti lo davano per possibile, anche se avrebbe potuto solo rafforzare due leader individualmente deboli. Forse è mancata la forza di credere nella pace per via pacifica, cosa che richiede molto più coraggio e fantasia politica che non cedere il passo ai generali o ai guerriglieri. O forse si è sentita, nel momento cruciale, l’assenza degli Usa, l’unico mediatore a cui israeliani e palestinesi siano disposti a dar retta. In ogni caso, il bilancio oggi è questo: Al Fatah e Israele hanno perso un’occasione, Hamas è riuscito nella sua provocazione, le imminenti elezioni palestinesi e israeliane rischiano di portare ancora più indietro le lancette della storia.