Sarà davvero un «dream team»? Al prendere corpo delle scelte di Barack Obama, le opinioni " anche dei simpatizzanti " cominciano a dividersi. Soprattutto sull'ampio ricorso a esponenti del principale «clan» del Partito democratico. Si potrebbe persino ironizzare sul fatto che, conoscendo la squadra presidenziale, l'elemento capace di far comprendere chi sieda alla Casa Bianca sia propria la presenza di Hillary Rodham Clinton: Bill non avrebbe nominato sua moglie capo della diplomazia. Ma sarebbe un giudizio eccessivamente drastico. Perché il presidente eletto sta dando vita, per ora con i nomi dei suoi collaboratori, a quel progetto di rinnovamento e di inclusione che l'ha portato al trionfo elettorale. Obama ha 47 anni, obiettivamente scarsa esperienza della politica di Washington e drammatiche sfide davanti a sé. Non poteva non ricorrere a figure di prestigio e di provata esperienza (in alcuni casi purtroppo di orientamento radicale sui temi bioetici e antropologici). E non poteva che trovarle nello staff dell'ultimo leader democratico, quel Bill Clinton in carica dal 1993 al 2001. Non mancano poi innesti di personaggi anagraficamente più vicini a lui, come il coetaneo Timothy Geithner, proiettato dalla Fed di New York al ministero del Tesoro. Ma resta innegabile che a sorprendere " e a fare discutere " sia la chiamata dell'ex first lady come ministro degli Esteri. Secondo la base liberal che sostiene Obama, Hillary è troppo «politica» vecchio stile, incarna una linea troppo «dura» (disse sì alla guerra in Iraq, vuole tenere il punto con Teheran) e si porterà, inevitabilmente, al seguito l'ingombrante marito. Il consorte, con la sua fondazione finanziata da magnati di varie parti del mondo, sarà per lei una fonte di conflitti d'interesse a parere di molti. Ma il presidente scommette che ciò che guadagna con la Clinton potrebbe superare i potenziali rischi legati all'"assunzione" della sua acerrima avversaria delle primarie. Innanzitutto, capacità, carisma, conoscenza dei dossier internazionali e di molti leader mondiali, maturata anche negli otto anni alla Casa Bianca. E poi rassicurazione verso coloro che paventavano un "salto nel buio" in tema di fermezza degli Usa verso antichi e futuri nemici. Infine, come sottolineano i maligni, è meglio avere dalla propria parte quella che può diventare una scomoda presenza in Senato, capace di catalizzare maggioranze non sempre allineate con il leader dell'esecutivo. D'altra parte Hillary, che fino a pochi mesi fa ha coltivato il realistico sogno di diventare la prima donna presidente, non si accontenterà di svolgere un ruolo totalmente subordinato. Ed è forse questa l'incognita più grande: l'ambizione del nuovo segretario di Stato. Se non ha potuto entrare nella storia come inquilina della Casa Bianca, tenterà di farlo come capo della diplomazia della prima potenza del Pianeta. Facile anche pensare che il tavolo su cui puntare sarà quello del Medio Oriente, dove il marito riuscì nell'impresa di una stretta di mano tra Rabin e Arafat. La situazione da allora non è molto cambiata. E per scrivere il proprio nome tra quelli memorabili, non c'è niente di meglio del varo di un assetto stabile che veda convivere fianco a fianco Israele e uno Stato palestinese indipendente. La pace nella regione rientra tra gli obiettivi in politica estera di Obama, potrebbe avere nella Clinton l'artefice operativo. Se l'ambizione fa mirare a traguardi importanti, a volte porta tuttavia a commettere errori di valutazione o compiere passi precipitosi. Ci sarà una "linea Hillary" che si discosterà dalla "dottrina Obama"? Il timore che qualcuno manifesta in queste ore troverà conferma o (c'è da auspicare) smentita nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Le sorprese del neo-presidente potrebbero comunque non essere finite.