Come smarrita in una stanza di specchi deformanti, l’Europa fatica a capire il fenomeno del jihadismo europeo, oscillando fra le ossessioni populiste che vedono in ogni musulmano una minaccia e le illusioni sterili del multiculturalismo e del politicamente corretto, che rifiutano di considerare il problema. La verità è che, pur rimanendo un fenomeno numericamente minimo rispetto alle dimensioni delle comunità musulmane europee, il fenomeno del radicalismo islamico violento cresce tanto fra gli immigrati da altri continenti, quanto fra le seconde generazioni e i convertiti. Le forme di questa crescita sono molteplici e differenti, spaziando dalle cellule legate ai grandi network terroristici internazionali alla crescente diffusione di militanti che si radicalizzano su Internet, i cosiddetti 'cani sciolti'. Nel mezzo, il ruolo giocato da ambigui predicatori che fanno proseliti ai margini di taluni centri di cultura islamici o delle moschee meno regolamentate. Il nodo fondamentale è tuttavia capire i motivi di questa diffusione, passo cruciale per impostare efficaci politiche di de-radicalizzazione che affianchino i pur necessari strumenti di monitoraggio e prevenzione. Ma comprendere i tanti possibili motivi è meno facile di quanto sembri, dato che non esiste una risposta univoca, che dia conto di come una fede si possa trasformare in militanza violenta. La prospettiva sociologica sottolinea come il fanatismo religioso sia spesso una risposta alla mancata acculturazione, ossia il fallimento della capacità di integrare 'il diverso'. Posti ai margini di una cultura che non li sa accogliere, scatta il meccanismo del rifugio in un mondo antitetico. Eppure la violenza islamista cresce anche nei Paesi che si erano illusi di trovare una risposta nel multiculturalismo, rinunciando all’idea di una società radicata attorno a una cultura forte di riferimento. Scoprono ora che i tanti secchielli in fila del multiculturalismo non fanno una piscina. Chi guarda alle dinamiche internazionali sottolinea come il jihadismo europeo rifletta le tensioni interne al mondo islamico, le delusioni delle primavere arabe, lo scontro dilaniante fra sunniti e sciiti, la rivalità fra islam politico e salafiti. Questa polarizzazione che insanguina il Medio Oriente non poteva che riverberarsi anche in Europa. Tanto più che, scomparse le grandi ideologie e i sacri confini della patria, è diventato più difficile uccidere e morire in nome di una 'buona causa' nella vecchia, disincantata Unione Europea. E combattere sulla via di Dio in Siria, Iraq, Yemen sembra una giustificazione accettabile agli occhi di tanti jihadisti. Dinanzi a questo problema, ogni Stato dell’Unione Europea ha seguito a lungo la propria strada, stante anche le diversità storiche e culturali delle singole realtà nazionali. È tuttavia cresciuta la consapevolezza di come sia necessaria una linea di azione condivisa, e non solo a livello di strumenti di polizia e di indagine. Quanto ancora manca è un’iniziativa politica che non insegua 'la pancia' dell’elettorato europeo, ma capisca che le trasformazioni demografiche e culturali obbligano a ragionare con uno sguardo lungo. L’Italia, da questo punto di vista, è un paradigma perfetto: da un lato la capacità delle nostre forze di sicurezza di prevenire le violenze e l’attivismo dei tanti canali spontanei attivi per favorire l’incontro e l’integrazione, soprattutto nei confronti dei figli nati in Italia dei migranti (con la Chiesa che sfida i pregiudizi e l’indifferenza in prima persona); dall’altro, la patetica incapacità della politica di affrontare un tema tanto spinoso quanto ineludibile. Con l’ovvia conseguenza di lasciare campo libero a chi vuole presidiare questo vuoto istituzionale per i propri fini, proiettando in Italia l’ombra dello scontro che divide oggi il mondo islamico e diffondendo un’interpretazione dell’islam dogmatica e radicale, chiusa a ogni offerta di confronto.