Tra poco meno di un mese, il 17 marzo, in via eccezionale e soltanto per questo anno 2011 nel 150° dell’Unità d’Italia, sarà solennemente celebrata in tutto il Paese la festa nazionale. Un evento a ricordo del faticoso e travagliato compimento, sul piano politico, di quella profonda unità che la Penisola aveva di fatto sempre conosciuto e che anche gli stranieri che venivano da noi per ammirare le nostre bellezze naturali e il nostro immenso patrimonio artistico riconoscevano di fatto allorché davano luogo a quella vera e propria catena letteraria che furono i 'viaggi in Italia', con firme di grande prestigio, da Montaigne a Goethe a Stendhal (per limitarsi soltanto ai più celebri 'ritrattisti' di questa immensa galleria di resoconti e di memorie): nessuno, né allora né dopo, scrisse di 'viaggi a Milano' o di 'viaggi a Firenze', e così via... Sarà, quella del 17 marzo, e giustamente, una festa civile; ma sarà anche – dovrebbe essere! – una 'festa religiosa', non tanto per celebrazioni patriottiche con bandiere, sfilate di reduci e fanfare che pure – nonostante la lunga conflittualità fra Chiesa e Stato – ebbero luogo nelle chiese o nelle loro vicinanze anche al tempo della contrapposizione frontale fra Santa Sede e dinastia sabauda; quanto, e soprattutto, per fare memoria degli antichi 'steccati' e per mettere in luce il loro definitivo superamento, grazie a una duplice maturazione: quella della coscienza civile e quella della stessa più avvertita coscienza ecclesiale. Per un caso fortuito (ma come non vedere in una simile coincidenza una sorta di 'provvidenzialità'?) questa eccezionale festa nazionale coincide, per la Chiesa, con la primissima fase della Quaresima. Mi sembra dunque bello che il 17 marzo una solenne liturgia, per iniziativa della Conferenza espiscopale italiana, si faccia anche momento di riflessione su quell’avvenimento che a molti appare lontano, e rischia per questo di essere una semplice occasione per l’esercizio delle consuete retoriche celebrative. E credo che sarebbe importante se nelle realtà ecclesiali locali si imitasse questo esempio. Vi sarebbero, per i credenti, almeno tre punti meritevoli di attenta considerazione. In primo luogo, il pentimento , il riconoscimento, cioè – già fatto proprio da Paolo VI in un famoso discorso e varie volte rinnovato dai suoi successori – che qualche cosa mancò alla Chiesa dell’Ottocento in fatto di percezione del corso degli avvenimenti e della necessità di non arroccarsi in una difesa oltranzista di una pur nobile tradizione. In secondo luogo, il ringraziamento per un’unità spirituale e morale raggiunta alla fine anche grazie all’apporto e al sacrificio dei cattolici, e consacrata da una Costituzione – quella del 1948 – che onora il nostro Paese e alla quale i credenti hanno offerto un contributo determinante. Infine, l’impegno di tutti i credenti al servizio di questa Nazione italiana che, nonostante le ombre che gravano su di essa e malgrado i venti di crisi che la scuotono, è ancora, nel mondo, un punto di riferimento per quanti credono nei più alti valori di una civiltà a misura d’uomo. Dire queste cose, anche dai pulpiti, significa 'fare politica' o, ancora peggio, diventare 'fazione'? Proprio no. La migliore tradizione cristiana – nella scia delle antiche preghiere, e degli antichi pianti, per 'Gerusalemme' – ha saputo sempre coniugare l’amore per le 'due città', quella storica e quella escatologica. Ecco perché il 17 marzo dovrebbe essere una festa per tutti e di tutti, anche per e dei cattolici.