Quasi avesse ricevuto un preavviso dallo staff di Giuseppe De Rita, si è dunque mostrato profetico il cardinale arcivescovo di Perugia, Gualtiero Bassetti, quando il 1° maggio scorso ha avanzato la sua proposta-provocazione sulla «condivisione» degli stipendi, come mezzo per ridurre le distanze tra chi guadagna tanto e chi, all’opposto, arranca grazie a una sempre più misera retribuzione. Fatto sta che proprio ieri il Censis ha diffuso un inquietante "report" sul fenomeno della polarizzazione dei redditi e dei patrimoni, in cui si conferma che lo squilibrio socio-economico nel nostro Paese ha ormai raggiunto livelli assolutamente allarmanti. La divaricazione di quella che potremmo definire la "forbice Italia" si è prodotta con velocità quasi fulminea, in perfetta sincronia con l’avvitarsi della crisi che, dal 2007-2008 in poi, ha flagellato l’Occidente industrializzato, riservando a noi un di più di sferzate capaci di incidere a fondo nella carne delle famiglie. Che la distanza tra ricchi e poveri fosse in aumento lo si era già percepito con discreta chiarezza. Meno forse si era intuita l’ampiezza del fenomeno. Perché non può non destare impressione, a livello mediatico, leggere che i dieci italiani più facoltosi hanno messo assieme, da soli, un patrimonio di 75 miliardi di euro (ricordate? in lirette di una volta fanno circa 150mila miliardi). Occorrono - osservano i ricercatori di Piazza di Novella - mezzo milione di famiglie operaie (famiglie, non individui!) per pareggiare quell’importo. Ma molto di più conviene riflettere sulle conseguenze a medio-lungo termine che minacciano di prodursi sulla nostra società. Il Censis accenna appena alcuni spunti, tra i quali si distingue il rischio, definito «alto», di un ritorno alla stagione dei conflitti sociali. E certo non occorre una cultura storica da "annalista" per capire che la corda delle diseguaglianze, quando viene tesa in maniera insopportabile, finisce per spezzarsi. Ma anche senza arrivare a simili estremi, fin d’ora si possono intuire ricadute destinate a farsi via via più pesanti. Tra i dati diffusi ieri, ad esempio, si segnala la differente quota di "caduta" dei consumi familiari che si è verificata fra il 2006 e il 2012, a seconda che si tratti di nuclei di operai, di impiegati o di dirigenti. È abbastanza intuibile che il tasso di resistenza alla crisi di questi ultimi risulti più alto, ma non ci si aspetterebbe una differenza superiore a quattro volte. Anche questo, insomma, conferma l’acutizzarsi di un malessere che ha ovvie implicazioni di natura economica (gli operai sono enormemente più numerosi dei manager), ma prefigura ricadute negative anche a livello di psicologia di massa, dando ai meno fortunati la sensazione che per loro ci sono scarsissime speranze di risalire la graduatoria del benessere. Sul piano sociologico, la specialità del Censis, la denuncia che più colpisce è quella di una erosione progressiva del cosiddetto "ceto medio". E questa è, in definitiva, la tendenza più pericolosa, quella che il Paese deve ad ogni costo arrestare. È su quell’area sociale, e sul suo irrobustimento nei decenni successivi all’ultima guerra, che abbiamo costruito le basi della nostra democrazia. Semplicemente, non possiamo permetterci di intaccarle ulteriormente.