Quale idea d’Italia? C’è questo interrogativo al fondo dello ius scholae e dell’autonomia differenziata, di cui si continua intensamente a discutere. Molto diverse e apparentemente slegate, le due questioni sono in realtà unite proprio da questa domanda. Che vuol dire anche: su quali principi, progetti, scelte si fonda la nostra convivenza civile? La politica non sembra avere a riguardo risposte chiare (le sta cercando?). La Chiesa – che non fa politica – un’idea invece ce l’ha: l’Italia è la casa degli italiani. Profondamente radicata in tutti i territori e in ogni ambito, la Chiesa è un osservatorio unico sulla società italiana, i vescovi esprimono spesso sentimenti non solo dei loro fedeli, ma condivisi da molti e l’associazionismo cattolico tesse una rete che unisce nella solidarietà. L’idea dell’Italia come casa degli italiani – tali non per comune identità etnica o per definizione giuridico-politica ma per vicende storiche sempre aperte a nuove evoluzioni – ha ispirato la Costituzione, soprattutto i primi articoli. Più recentemente, ha ispirato la Settimana Sociale di Trieste, incentrata sulla democrazia che significa – in estrema sintesi – unità e pluralismo e cioè diversi che convivono insieme liberamente.
Se l’Italia è una casa, va progettata, costruita o cambiata secondo le necessità di chi la abita. Primo, lo ius scholae. O lo ius soli? O lo ius culturae? Si può discutere, ovviamente, quale sia la scelta migliore e come realizzarla ma cambiare, riconoscere molto presto alle persone che vivono con noi gli stessi diritti e doveri di cittadinanza è anzitutto questione di giustizia e umanità.
Poi c’è anche una realtà evidente: i (sempre più) vecchi italiani hanno (sempre più) bisogno di nuovi italiani per il lavoro e la salvaguardia della previdenza, per l’assistenza ai più anziani. Lo ha detto – sine ira et studio – il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta. È una questione di buon senso: impossibile servirsi delle braccia degli immigrati lasciandoli fuori dalla porta. A partire da quelli che già vivono in mezzo a noi, specie i più giovani. Essere, giustamente, attenti ai problemi dei forgotten men emarginati dai cambiamenti economico-sociali è una cosa; rinunciare a progettare un futuro per tutti – magari per avere i loro voti – è fare ideologia senza misurarsi con la realtà. E la realtà dice che per parlare di cittadinanza basta guardarsi attorno quando si vanno a prendere i figli a scuola.
Secondo, l’autonomia differenziata. L’approvazione della legge 86 che l’ha introdotta ha suscitato preoccupazioni e proteste. La proposta di referendum per abrogarla ha raccolto finora più di 700.000 firme. Il 24 maggio scorso, la Cei ha dichiarato che l’autonomia differenziata «rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le Regioni che è presidio di unità della Repubblica». La legge 86 – afferma ora un appello firmato da più di cento costituzionalisti, tra cui Cheli, De Siervo, Zaccaria, Angiolini, Cabiddu – «spacca l’Italia: divide le Regioni» e favorisce le disuguaglianze tra i cittadini italiani. Così come è stata approvata, scrivono, la legge sull’autonomia differenziata contraddice l’art. 5 della Costituzione, che «sancisce il principio dell’unità ed indivisibilità della Repubblica [...] presidio della tutela dei diritti fondamentali», riconosciuti dagli artt. 2, 3 e 4. La discussione ha chiamato in causa la riforma del Titolo V della Costituzione introdotta dal centro-sinistra nel 2001, in cui qualcuno vede un’incrinatura dell’unità nazionale e l’origine dei problemi attuali. Ma, comunque la si pensi sulle autonomie locali, il punto è che, mentre l’art. 116 della Costituzione prevede la “possibilità” in via eccezionale di attribuire alle regioni a statuto ordinario una serie di funzioni, la legge 86 «definisce i principi generali per l’attribuzione» di tali funzioni: in altre parole, trasforma una “possibilità”, da introdurre eccezionalmente, in uno spezzettamento sistematico delle competenze dello Stato e in una differenziazione programmatica tra le regioni (soprattutto tra quelle del Nord e del Sud). Insomma, non applica la Costituzione ma la stravolge. Altro stravolgimento, spiegano i costituzionalisti: l’art. 116 prevede che il trasferimento di funzioni alle regioni sia approvato dal Parlamento, mentre la legge lo affida al governo. Ed escludere il Parlamento significa escludere l’unico legittimo rappresentante dell’intero popolo italiano. Si aggiungono poi la difficilissima definizione dei Lep (Livelli essenziali delle prestazioni), grandi problemi di finanziamento ecc.
La politica sembra aver scoperto che, anche se non ha interesse a orientare i voti, la voce della Chiesa è più rilevante di quanto si pensasse. Si esercitano perciò pressioni perché con le sue parole favorisca questo o quello oppure smetta di parlare. Ma la Chiesa resta sempre profondamente libera, come ha spiegato il cardinale Matteo Maria Zuppi nell’intervista pubblicata domenica scorsa. Libera anche di interrogarsi su ciò che è meglio non solo per i credenti ma per tutti.