Per qualche istante davvero non sento il minimo suono, ed è strano, è come stare a occhi aperti nel buio. Come tuffarsi in un mare. Ma dopo pochi secondi l’udito si affina e avverto, dal corridoio, il sordo laborioso ronzio della lavatrice che gira. Mi conforta: quasi che in quel lavorio la casa si mostrasse, nel silenzio, viva. Tendo l’orecchio a cogliere i rumori che normalmente non sento. Oltre il cortile, il correre di un autobus nelle strade deserte. Lontano, l’abbaiare di un cane. E il rombo di un aereo, stranamente basso sulla città. Una persiana che sbatte, con un colpo secco. Dal quartiere attorno, nulla: non furgoni in sosta a motore acceso nella fretta di una consegna, non eco di lavori in corso, di pale, trapani, martelli.
Milano così muta mi smarrisce; quasi che il frastuono del fare, dell’andare, del correre fosse della città la voce. Qui in casa, le fusa dei gatti, felici nella insolita pace. Ci vorrebbe, mi dico, un camino: lo schiocco delle scintille in un camino sarebbe già una voce con cui discorrere (come scoprendo, in un’ora appena di silenzio, che siamo inesorabilmente tesi ad altro da noi. O, come scrisse il poeta Hölderlin, che «noi siamo un colloquio»). Il gioco di questa solitaria domenica mi affascina. Oltre ai flebili rumori della casa, è quasi una domanda quella che mi sento addosso: muta, paziente, fedele. Come se, nel silenzio, dal fondo di un pozzo interiore sorgesse una voce, cui normalmente non bado.
Mi viene in mente un monastero in cui passai una volta la notte: quel vasto mare di silenzio di cui non avrei saputo dire se mi spaventava o affascinava. Dalla portineria l’ascensore si mette in moto con un singhiozzo metallico. Dall’appartamento di sopra, dei passi. Voci, una porta che sbatte, una tv che viene accesa. Stanno tornando tutti. L’enclave di silenzio si scioglie. Peccato, mi dico con stupore: come se mi fossi affacciata su un orizzonte ignoto, e me ne restasse addosso una confusa nostalgia.