Dopo dieci anni e più di negoziati, incontri segreti, rinvii, minacce di bombardamenti, quasi accordi e infiniti fallimenti, a fine novembre è stato infine firmato l’accordo fra l’Iran e i cosiddetti 5+1, ossia i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Un’intesa cercata con ostinazione dai principali due contendenti, ossia Washington e Teheran, i cui emissari si erano incontrati con discrezione in questi ultimi mesi, e raggiunta più per sfinimento che per reale convinzione. Di fatto, l’accordo siglato è solo l’inizio di un nuovo cammino per risolvere definitivamente il nodo del programma nucleare iraniano; il suo effetto più importante è che si guadagna altro tempo per evitare sia la proliferazione iraniana, sia un possibile attacco militare contro i suoi impianti nucleari.Ma le fragilità dell’accordo sono molto evidenti: per sei mesi l’Iran ha congelato di fatto la parte più pericolosa del suo programma (l’arricchimento al 20% dell’uranio, il completamento del sito di Arak) aprendosi a ispezioni più intrusive, in cambio l’Occidente ha accettato di non imporre nuove sanzioni e concesso lo sblocco di beni iraniani fermati all’estero per una manciata di miliardi di dollari, oltre a qualche concessione commerciale. Ma i contrasti di fondo rimangono aperti: l’Iran ha il diritto di arricchire uranio, in che percentuale e fino a che quantità? Come smontare il meccanismo delle sanzioni se Teheran accetterà le proposte occidentali? Già nel 2003 e nel 2004 delle intese temporanee erano state raggiunte fra l’Europa e l’Iran, ma finirono per essere travolte dalla reciproca diffidenza e dalle rigidità nei negoziati. Nulla ci dice che non si rischi lo stesso oggi. Anche perché in molti sono al lavoro per sabotare l’accordo e rovesciare definitivamente il tavolo dei negoziati.Vi sono contrasti prima di tutto in Iran. Il giorno dell’accordo, il 25 novembre, a Teheran la notizia era stata accolta con una certa esitazione. La Guida suprema Ali Khamenei, l’uomo più potente del Paese, come avrebbe commentato la notizia? Sarebbe stato capace di superare la sua ostilità e diffidenza verso l’Occidente? Per alcune ore, parlando con gli iraniani, prevaleva la cautela. Nella capitale iniziavano a girare anche storie di un forte scontento dei radicali e dei vertici dei pasdaran. Finché la Guida suprema in televisione non aveva sdoganato l’accordo dicendo che «i negoziatori iraniani sono tutti figli della rivoluzione», cioè figli suoi. Non a caso il giorno dopo, anche i giornali del conservatorismo più tetragono e radicale, avevano forzatamente scelto un profilo molto basso, prudente, che contrastava con i titoli sparati dei giornali più moderati e filo-governativi, decisamente più favorevoli all’intesa.
Ma il lavoro ai fianchi del governo è cominciato subito. A chi frequentava l’Iran già una quindicina di anni fa ricorda la tattica usata – ahimè con enorme successo – contro il governo riformista di Khatami alla fine degli anni ’90: i vertici dei pasdaran che attaccano i "traditori della rivoluzione" e minacciano i giornalisti (appena pubblicate su un sito le iniziali – con allegato numero di carta di identità – dei giornalisti che pagheranno il loro tradimento), i radicali che accusano di aver svenduto la sicurezza del Paese, insomma il solito refrain per disfare quanto, con fatica, è stato costruito dal governo Rohani e dal suo ottimo team di diplomatici.Se c’è una cosa di cui avrebbe bisogno il presidente iraniano per resistere a queste pressioni interne è di sostegno internazionale e di un’applicazione tranquilla degli accordi. Al contrario, negli Stati Uniti, si è scatenato il solito fronte delle lobby ossessionate dall’Iran e di chi vuole impedire ad Obama di cogliere almeno un successo in Medio Oriente. Al Congresso, tradizionalmente molto sensibile ai timori di Israele e fortemente ostile alla Repubblica islamica, un fronte trasversale sta cercando di far passare nuove sanzioni finanziarie e industriali con l’obiettivo, neppure tanto velato, di scardinare quanto appena raggiunto a Ginevra. Parallelamente si rimprovera al presidente di aver ceduto alla protervia iraniana – curiosamente la stessa accusa che i radicali muovono a Rohani a Teheran – e di aver umiliato il prestigio degli Stati Uniti. Tanto che la Casa Bianca è costretta a destreggiarsi faticosamente: da un lato Obama ha dichiarato che opporrà il veto presidenziale a ogni decisione del Congresso che imponga nuove sanzioni (l’ultimo tentativo è di giovedì scorso, tramite una mozione bipartisan per «proteggere il popolo americano dalla duplicità iraniana», come sostengono i suoi autori); dall’altro lato, per mostrare i muscoli e rintuzzare le accuse di debolezza, ha aggiunto qualche società iraniana alla "lista nera" già esistente. Una mossa dannosa prima ancora che sostanzialmente inutile, dato che è esattamente il contrario di quanto hanno bisogno i moderati in Iran per puntellare il fronte interno. Queste decisioni finiscono con il rendere più difficile, non più agevole, il percorso verso un accordo finale credibile e duraturo.Ma è dal fronte regionale che vengono le note più dolenti: le monarchie arabe del Golfo sembrano aver superato lo stesso Israele nell’intensità del loro odio verso il vicino persiano e nell’esagerazione del pericolo iraniano. Come noto, a Gerusaleme, Teheran è uno spettro soprattutto per i politici della destra e per il primo ministro, Bibi Netanyahu. I vertici militari e dell’intelligence sono meno pessimisti nel giudicare la minaccia e nel calcolare quanto l’Iran sia vicino alla bomba (sono ormai dieci anni che il premier sostiene che «entro sei mesi Teheran avrà l’atomica»). Ma a Riad le cose vanno ancora peggio: le paure di un contagio della primavera araba si sono unite al terrore di una bomba sciita, scatenando le pulsioni più estremiste del regno saudita, che sta sostenendo in tutto il Medio Oriente gruppi e movimenti islamisti estremamente aggressivi e dogmatici. Un tipo salafismo anti-sciita e ostile a tutte le minoranze religiose, che rischia pericolosamente di scivolare nel jihadismo e a cui si accompagnano continue dichiarazioni di alti esponenti della casa reale sulla necessità di "trovare" armi atomiche per rispondere alla possibile bomba iraniana (recente la dichiarazione che, in caso di necessità, il Pakistan non potrebbe rifiutarsi di "aiutare" in questo campo l’Arabia Saudita, dopo tutti gli aiuti ricevuti).
Nei giorni scorsi è sostanzialmente fallito un vertice del Consiglio di cooperazione del Golfo, che doveva vagliare la proposta saudita per un’unione politica di tutte le monarchie petrolifere (Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Oman, Arabia Saudita) come unica risposta al pericolo iraniano. L’Oman ha già rifiutato e gli altri sceicchi stanno prendendo tempo: l’Iran farà paura, ma finire assorbiti dai sauditi sembra non molto meglio ai loro occhi. Insomma, contro il ponte faticosamente costruito in un decennio di trattative fra Washington e Teheran – già di suo poco solido – soffiano venti impetuosi di tempesta. Ma il tanto peggio auspicato da alcuni non è sicuramente il tanto meglio per noi e per i popoli della regione. Coltivare l’arte del compromesso e della ragionevolezza è una pratica ancora più preziosa in un tempo come l’attuale, con il Medio Oriente attraversato da una serie infinita di scontri, spinte centrifughe e lotte intestine.