Potrebbe sembrare anni luce diverso da quello recentissimo in Egitto il viaggio che Francesco si accinge a compiere oggi e domani a Fatima per il centenario della prima apparizione di Maria ai tre pastorelli, due dei quali – Francesco e Giacinta Marto – saranno canonizzati al culmine della visita. E invece c’è un filo che lega in maniera strettissima le due visite e che giorno dopo giorno sta diventando uno dei temi distintivi del suo pontificato: l’invocazione della pace per il mondo. Dal messaggio Urbi et Orbi di Pasqua a oggi, infatti, papa Bergoglio ha messo in atto una serie di gesti e di interventi che, come i grani di un rosario, ripetono incessantemente quell’invocazione. E presentano agli occhi di un’umanità da un lato disorientata, dall’altro (soprattutto in alcune cancellerie e forze politiche) fortemente tentata da scorciatoie guerrafondaie, gli scenari apocalittici di una eventuale sciagurata saldatura di quella «terza guerra mondiale a pezzi» che ha più volte e con forza denunciato da quando è stato eletto vescovo di Roma.
Nelle ultime tre settimane, poi, la voce del Pontefice si è levata a cadenza regolare prima dal Cairo, poi sabato scorso in un discorso rivolto ai giovani ricevuti in Vaticano e infine nella immediata vigilia del viaggio al santuario portoghese, quando ha presentato la sua visita proprio come un itinerario di «pace e di speranza». Le 29 ore che trascorrerà in terra portoghese rappresentano dunque una sorta di approdo, il punto più alto del percorso, spirituale e geopolitico insieme, che si è così venuto configurando.
È un itinerario che passa attraverso l’abbraccio con l’imam di al-Ahzar, sinonimo del ripudio di quella violenza in nome Dio che si riteneva ormai retaggio del passato e che, invece, è tornata ad avvelenare i rapporti tra i popoli anche nei primi decenni del III millennio. È un percorso che si nutre delle parole accorate con le quali Francesco ci ha ricordato che mai una bomba può essere chiamata «madre»; e che – oltre Fatima – già si proietta sullo scenario dell’annunciata udienza al presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, del 24 maggio prossimo, quando l’inquilino della Casa Bianca arriverà in Italia per un atteso G7.
Che cosa c’entri la centenaria profezia di Fatima con lo scenario odierno è in tal modo più facilmente percepibile. Le sei apparizioni mariane del 1917 non rappresentano infatti solo un’irruzione del soprannaturale nelle vicende degli uomini, ma contengono in sé una lettura della Storia, che al di là dei riferimenti alle grandi tragedie del XX secolo, conserva una sua perdurante attualità anche oggi. Le parole della Vergine, così come ce le ha riferite suor Lucia nelle tre parti del Segreto, rimandano cioè all’inconciliabile alternativa tra quella «cultura della distruzione » evocata da Francesco proprio nell’incontro di sabato 6 maggio con i giovani e quella che san Giovanni Paolo II avrebbe definito la «civiltà dell’amore».
Il messaggio di Fatima, che contiene le coordinate per evitare la distruzione, è dunque consostanziale all’invocazione di pace di papa Bergoglio in un periodo in cui – sono espressioni sue – stiamo vivendo «la tragedia più grande dopo la Seconda guerra mondiale». Anche l’umanità del 2000 infatti si trova a contemplare il tragico 'spettacolo' di «città mezze in rovina» (come non pensare ad Aleppo o Mosul, ad esempio?), di cadaveri sparsi per le strade, di migliaia di martiri cristiani, proprio come si legge della terza parte del Segreto. Ma nel messaggio, consegnato 100 anni fa dalla Madonna a tre bambini di 'periferia', viene indicato con chiarezza anche l’antidoto: penitenza e preghiera. Perché la pace è sempre possibile e il futuro che quella visione sembra svelare non è un film già scritto. Quando la libertà dell’uomo si fonde con la volontà salvifica di Dio, anche la storia cambia.
Ce lo ha insegnato a suo tempo san Giovanni Paolo II. Ce lo ripete oggi Francesco, giungendo a Fatima per deporre, come il suo predecessore, la propria invocazione di «pace e di speranza» ai piedi della Vergine.