giovedì 16 luglio 2015
Dopo due anni di aumento, nel 2014 l’indice di povertà assoluta delle famiglie italiane è rimasto stabile. Ma la situazione rimane gravissima. Occorre una nuova visione moderna di stato sociale. (Francesco Riccardi)
In Italia la povertà frena ma 4 milioni soffrono
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La ripresa, forse, arriverà nel secondo semestre: la marea comincerà a rialzarsi e le barche a galleggiare un po’ meglio. Ma oggi, dopo sette anni di recessione, è tempo di soccorrere quanti sono rimasti arenati, di far sì che ogni persona abbia la certezza di non essere abbandonata a se stessa, senza rete di protezione. Le cifre che il rapporto Istat ci consegna, infatti, con la povertà assoluta arrivata a coinvolgere il 6,8% degli italiani, 4 milioni e 102mila persone, testimoniano l’assoluta urgenza e necessità di costruire uno strumento nazionale di contrasto alla miseria. Per rendere tangibile l’idea che una comunità, la nostra comunità nazionale, non si fa presente solo attraverso la carità e la beneficenza (che pure, grazie a Dio e nonostante l’indifferenza e il disprezzo degli inerti, in Italia non mancano), ma è in grado, in una visione moderna di Stato sociale, di farsi carico delle situazioni più estreme di disagio. Di accoglierne le fragilità e insieme risvegliarne le potenzialità. Per riemergere insieme, sommersi e salvati, dall’abisso della crisi. Perché solo insieme se ne può uscire.Ci sono però quattro errori, fra loro speculari, dai quali è bene guardarsi per affrontare in maniera corretta tale grande questione. Il primo è quello di chi pensa che un intervento non sia necessario o, peggio, possa essere dannoso. La vastità e complessità del fenomeno della povertà, che l’Istat ha descritto, dovrebbe essere sufficiente a fugare i dubbi sull’urgenza di adottare una tale misura, peraltro esistente in tutti gli altri Paesi d’Europa a eccezione di Grecia, Ungheria e appunto Italia. Senza cedimenti all’assistenzialismo, mettendo sempre al centro dell’intervento non un mero sussidio monetario, ma un intervento più complessivo, un percorso di inclusione fatto di servizi per l’impiego anzitutto – perché la prima povertà da combattere è quella che toglie la dignità di provvedere da sé al sostentamento della propria famiglia – e poi di accompagnamento sociale, di cura delle situazioni di disagio, di educazione. L’uscita dalla miseria, infatti, non passa solo dal portafoglio.Per contro, occorre non cadere nell’errore opposto: quello di chi, come ad esempio il Movimento 5 Stelle, ipotizza un intervento ad amplissimo raggio, quasi appunto ci fosse un "reddito di cittadinanza" da assicurare a tutti. Ai pentastellati va tuttavia riconosciuto il merito di aver posto con forza il tema all’attenzione del mondo politico, quando solo la società civile se ne occupava riscuotendo scarsa attenzione nei Palazzi. Tuttavia, la loro proposta di legge in discussione al Senato si occupa di situazioni diverse come le persone in povertà relativa e quelle in pericolo di impoverimento. Con un doppio rischio: di non centrare l’obiettivo di miglioramento concreto di chi sta davvero male (se non a costi davvero alti) e quello di riproporre "gabbie di povertà" nelle quali si resta "prigionieri" del sussidio e di qualche lavoretto, senza essere più stimolati a migliorare strutturalmente la propria condizione. Il criterio d’azione dovrebbe essere invece quello di un "universalismo selettivo", non per categorie (età, professione o prossimità alla pensione, come indicato nei giorni scorsi dall’Inps) ma per condizione (la povertà assoluta).Ancora, sarebbe uno sbaglio ritenere che il contrasto alla povertà si possa risolvere a livello regionale, senza un vero Piano nazionale. L’attivismo che si registra in alcuni territori, a cominciare dalla Lombardia, sembra nascere infatti più dall’esigenza di "contenere" la spinta e la concorrenza politica del M5S che da una reale volontà di incidere sul fenomeno. Le Regioni su questo capitolo non hanno a disposizione fondi consistenti come quelli per la sanità, possono al massimo svolgere un ruolo di complemento. Meglio sarebbe, piuttosto, se concentrassero risorse e soprattutto energie sul miglioramento dei servizi per l’inclusione, prima di tutto quelli per il lavoro. I ritardi e le inefficienze emerse nel programma di "Garanzia giovani" mostrano che c’è molto da migliorare se si vuole offrire davvero una chance di impiego e ricollocamento a chi è povero perché disoccupato.Soprattutto occorre guardarsi dall’errore più grande. Quello di ritenere, ancora una volta, che non si possa intervenire ora che la spesa pubblica è in aumento, perché ci sono da scongiurare nuove imposte, perché bisogna pensare alla ripresa e via elencando mille altre ragioni più o meno fondate. Perché se di priorità si vuole discutere, quale altra può sopravanzare l’aiuto a chi non ha nulla? Si può rimanere ancora inerti a leggere che oltre 1 milione di bambini, ben il 10% dei minori in Italia, non ha cibo a sufficienza, un tetto dignitoso sotto il quale ripararsi e libri per studiare? Qui in Italia, proprio accanto a noi, c’è da sollevare e mettere in salvo chi è rimasto sommerso. E va fatto adesso: ogni inerzia è ingiusta e sempre più intollerabile.
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