Insisto: è giusto togliere l'ossigeno a 80 anni?
mercoledì 10 giugno 2020

In passato ho toccato anch’io, più volte, un tasto delicatissimo: i respiratori tolti agli anziani per darli ai giovani. Adesso la battaglia si sposta su un terreno contiguo: le bombole di ossigeno. La settimana scorsa un paziente di Covid ha raccontato di essersi salvato perché per dare una bombola a lui l’han sottratta a un ottantenne. Dice che ricorda bene quando fu il momento in cui doveva morire e non è morto perché quell’altro è stato fatto morire al posto suo. Lui è un ex deputato di Scelta Civica e poi di Demos, era ricoverato all’ospedale civile di Brescia, erano in trenta in un reparto anti–Covid che in realtà era nato come lavanderia, trasformata poi per necessità quando si diffuse il virus.

Respiravano tutti a fatica senza ossigeno perché c’erano solo tre bombole, accanto a lui c’era un ottantenne che dormiva su un fianco ed era collegato a una bombola tutta sua, arriva un’infermiera, stacca il collegamento all’ottantenne, sposta la bombola e la collega all’ex deputato, che si sente rinascere. Adesso dice che pensa spesso a quell’anziano, piange e prega per lui. Si può credergli, è uomo di princìpi forti ed è stato un politico scrupoloso, il suo cruccio è non poter contattare i famigliari dell’altro. L’ospedale in questione dice che tutti i suoi lavoratori, medici e infermieri, sono preparati a dare il massimo, nessuno si sottrae. Ognuno di noi conosce degli ospedali, e sa che questo è vero. Se succede che pazienti muoiano per mancanza di respiratori o di bombole, è perché questa è una inadeguatezza del sistema, della Sanità, dei fondi stanziati, dei bilanci, non dei lavoratori medici o infermieri. Se ci sono trenta pazienti bisognosi di ossigeno e solo tre bombole, la domanda dev’essere: perché solo tre bombole? Vuol dire che alcuni ricoverati dovranno per forza morire di una morte lunga e dolorosa, con i polmoni assetati di ossigeno, con l’intestino infuocato, col bisogno impellente di andare spesso in bagno, ma nell’impossibilità di scendere dal letto: se la morte è un mostro, glieli hanno abbandonati fra le braccia. Qui viene applicato il principio: “Lo vuole la Natura, noi non c’entriamo”. Con tutta la comprensione per l’ospedale dove si fa più di quello che si può, dentro di me c’è qualcosa che definisce quella morte come una condanna a priori.

La storia dell’ottantenne che non si può salvare perché è ottantenne mi fa tornare in mente un bellissimo e atroce film giapponese, vincitore a suo tempo della Palma d’Oro a Cannes, intitolato La ballata di Narayama, che racconta un’usanza del villaggio Shinshu. Questo villaggio obbligava i vecchi al compimento dei settant’anni a recarsi sul monte Narayama e lì aspettare la morte, smettendo di gravare sulla famiglia. Siamo nel 1860. Adesso, per ogni ottantenne a cui sottrai la bombola di ossigeno c’è un cinquantenne che può respirare. Allora, in Giappone, per ogni vecchio che andava a morire sulla montagna c’era un giovane che poteva permettersi di vivere. Il film racconta la vecchia protagonista che vuole spontaneamente andarsene e lasciare il posto a un nipote. Ha sessantanove anni, non ha diritto a toccare i settanta. Vien portata sulle spalle dal figlio, sale per il sentiero della morte tra scheletri abbandonati, crani vuoti, corvi e avvoltoi. Arriva sulla cima mentre nevica forte, vien buttata giù, il suo problema è risolto. Morirà presto di freddo, e il fatto che stia nevicando, dice il figlio, vuol dire che “gli dèi sono buoni”. Tutti quelli morti prima di lei sulla montagna avevano settant’anni. Se oggi ti tolgono l’ossigeno a ottanta, non si può negare che un progresso c’è.

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