Si potrà obiettare sul numero non così strabocchevole di partecipanti, sia a Milano che a Roma, dove per altro anche il cattivo tempo del primo giorno di vero autunno capitolino ha avuto il suo peso. Si potrà sottilizzare sulle motivazioni di qualche striscione e di qualche cartello, specie a Milano, che affiancavano il "no" al terrorismo a quelli contro l’islamofobia, la ghettizzazione e quant’altro. Ma questa volta non si potrà disconoscere che la ripulsa del mondo musulmano alla violenza e alla barbarie delle stragi «nel nome di Allah» è davvero salita, alta e forte. Con un’iniziativa corale e di carattere nazionale, che chiude una serie di manifestazioni locali altrettanto significative. E con una messe di adesioni da parte di tutte le sigle della mezzaluna di casa nostra che pure dice molto, viste le profonde differenze interne a quel mondo, che in più occasioni in passato hanno impedito un dialogo fruttuoso con le istituzioni del Paese. Non a caso un riconoscimento è venuto ieri anche dal messaggio che ha inviato il presidente Mattarella.Si potrà poi osservare che da tempo si sentiva il bisogno di un appuntamento del genere. Ci si potrà rammaricare che non ci sia stato già prima di ieri, comunque senza aspettare l’eccidio parigino che ne è stato la molla scatenante. Ma infine è arrivato, ed è questo che più conta. «Vi abbiamo atteso e ora siete venuti, perciò vi ringraziamo», ha ben sintetizzato nel suo saluto flash l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Perché adesso anche per gli appartenenti alla galassia islamica ieri rimasti a casa sarà più difficile restarsene asserragliati nelle cosiddette "zone grigie", quelle aree di dissenso con gli assassini che però rifiutano di condannarli a voce alta: giudicandoli silenziosamente come dei "fratelli che sbagliano", ma che in fondo in fondo una qualche giustificazione per la loro follia omicida ce l’hanno.Dalla marcia di piazza Santi Apostoli e da tutte le altre arriva anche un contributo positivo al clima politico italiano, che sull’accoglienza degli immigrati dalle aree a prevalente fede islamica e sul loro inserimento nel tessuto nazionale è già abbastanza infuocato di suo. E non ha perciò bisogno di cercare altre ragioni di surriscaldamento nella presunta timidezza dei loro vertici religiosi e culturali. Ma non meno importante, accanto alle voci degli imam e dei responsabili "laici" delle comunità, si è rivelata la partecipazione di molti giovani che, a viso scoperto, agitavano bandiere europee, proclamavano il loro "non ci stiamo" alla logica del terrore e gridavano dei "viva l’Italia" che sarebbe troppo ingiusto sospettare di finzione.Così, mentre ieri altre metropoli europee, a cominciare da Bruxelles, hanno vissuto ore cupe di timore e di trepidazione, all’esito di allerta di grado massimo che hanno spinto la gente a restare chiusa in casa, le strade delle due principali città italiane si sono animate per lanciare all’opinione pubblica segnali di tutt’altro genere. Le migliaia di connazionali di fede musulmana non si sono limitati a condannare gli attentati, a sconfessarne con lo slogan
not in my name (non in mio nome) l’inaccettabile ispirazione religiosa. Hanno anche invocato uno sforzo generale di tutti i fedeli, propri e altrui, a vincere insieme la paura, a collaborare perché il dialogo comune si intensifichi anziché affievolirsi.È un auspicio da raccogliere e da concretizzare senza attendere nuove tragedie. E in ogni caso, nella deprecabile ipotesi di altri episodi luttuosi, senza mai farsi scoraggiare. Certo, il difficile viene proprio al momento di tornare alla vita quotidiana, quando ci si deve confrontare con il collega di lavoro, il vicino di casa o la compagna di scuola di fede diversa. È lì che occorre un sforzo supplementare, per vincere il sospetto e l’impulso a ritrarsi, per diffidenza o per risentimento. Ieri però dalla manifestazione si è levata una voce particolarmente significativa: quella che ha definito il Daesh, il sedicente "stato islamico", «un cancro per l’islam». Come in tutte le battaglie contro i tumori, per vincere servirà dunque un impegno duplice e convergente: sia da parte del "corpo" che lo ospita e ne viene minacciato, sia da chi, dall’esterno, si prodiga per contenerlo e possibilmente stroncarlo. Insieme si deve e si può.