Contributi pubblici all’editoria, argomento "out". Proviamo ad andare controcorrente e tentiamo un esercizio impossibile. In queste brevi note rischiamo un’operazione non semplice in un tempo in cui prevale lo spot sul ragionamento, l’urlo sulla riflessione. Siamo convinti, comunque, che ne valga la pena. Sì, perché quando in Italia si parla di sostegno ai giornali si trova subito chi grida al privilegio "di casta", a quattrini gettati al vento, a un sistema che appartiene alla Prima Repubblica. Roba vecchia, insomma.Diciamo subito che la realtà è ben diversa da come viene rappresentata. È verissimo, ci sono stati abusi, anche recenti, che hanno contribuito a creare un clima ostile a questo sistema pensato, non solo nel nostro Paese, per favorire e sostenere il pluralismo dell’informazione. Ecco il quesito centrale del nostro ragionamento: la presenza in edicola di più testate, alcune portatrici di idee e punti di vista diversi, altre legate al territorio e vicine alla gente, tutte in grado di svolgere un prezioso servizio informativo, costituisce un valore o rappresenta uno sperpero?Con l’adozione del Fondo per l’editoria, contrariamente a quanto si propaganda, l’Italia non si distingue dal resto dell’Europa. Anzi, è piuttosto la costante applicazione di tagli ai contributi (sono rimasti solo 50 milioni di euro per l’anno in corso) che allontana il nostro Paese da quasi tutti gli altri. Ormai siamo diventati noi un’anomalia nel panorama continentale, che vede un diffuso e variegato sostegno al mondo della carta stampata.«Senza i giornali che voi rappresentate – ha detto mercoledì scorso a Roma, all’assemblea promossa da quasi tutte le sigle del comparto, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’editoria, senatore Giovanni Legnini – l’informazione in Italia sarebbe diversa». Diversa, e non migliore. Certo, un po’ meno libera. Eppure, a ogni richiesta di integrazione del Fondo per gli aiuti diretti si assiste a una levata di scudi con la quale si chiede di porre fine a queste "regalie di Stato". Secondo un’opinione diffusa, basterebbe il mercato ad assicurare la presenza a chi se la guadagna.La libertà di informazione, sancita dall’articolo 21 della Costituzione, merita qualche sacrificio. I giornali vivono anni difficili, scanditi dalla continua contrazione delle vendite, dovuta all’avvento dell’era del digitale e dal perdurante strapotere dei grandi network che assorbono in larga misura il mercato pubblicitario. È, dunque, più che evidente che occorrono correttivi per intervenire in un settore vitale per una democrazia moderna. L’informazione rappresenta uno snodo decisivo per una comunità civile. E i giornali sono anche il luogo del dibattito e della formulazione delle idee, una "piazza" in cui la gente si ritrova e dalla quale emergono volti e storie del Paese altrimenti ignoti. In una parola, è l’anima della democrazia.Le incertezze sulla consistenza del Fondo e gli improvvisi rincari delle tariffe postali avvenuti nel 2010 hanno costretto molti editori a ridurre pagine e uscite. Anche questo si può considerare un "bavaglio all’informazione", meno clamoroso di altri che hanno molto allarmato, ma non meno insidioso. È quindi fondamentale che il Parlamento intervenga in sede di approvazione della legge di Stabilità 2014 per riportare la dotazione dei contributi a non meno di novanta-cento milioni. Per assicurare un minimo di programmazione alle aziende, occorre una previsione quantomeno triennale, come auspicato nel documento proposto dal governo e approvato il 6 agosto scorso da tutte le associazioni di categoria. Alle buone intenzioni devono seguire i fatti. È semplicemente una questione di libertà.