A due anni di distanza dai pogrom anti-cristiani dell’estate 2008, la gente dell’Orissa attende ancora giustizia. E con lei l’attendono i cristiani di tutto il Paese.In queste ore i sopravvissuti ai massacri, che hanno avuto nel distretto di Kandhamal il loro epicentro, si stanno alternando in tribunale nella capitale, portando le loro testimonianze, nella speranza che le autorità arrivino a individuare e punire i colpevoli di una violenza che ha reso tristemente familiare al mondo il nome di uno Stato, l’Orissa, da allora divenuto sinonimo di intolleranza e persecuzione. Come i lettori ricorderanno, nel giro di poche settimane, vennero uccise un centinaio di persone (il conteggio ufficiale si ferma a una quarantina), ben 600 villaggi devastati, 5.600 abitazione saccheggiate e incendiate, quasi 300 chiese distrutte. Oltre 50mila i fuggiaschi senzatetto. Coloro che si sono macchiati di tutto questo restano, in larga parte, ancora in libertà. Ad oggi, soltanto 200 dei quasi 900 casi approdati in tribunale sono stati esaminati. Quanto agli omicidi, le cronache riferiscono di un solo verdetto di condanna pronunciato sui 12 episodi esaminati. Oggi per le strade del Kandhamal il clima è ben diverso dal 2008. Il terrore ha lasciato il posto a una paura sottile, ma non meno tenace. Quello che rispetto ad allora non è cambiato è il senso di incertezza e precarietà, la palpabile sensazione, nei tribali cristiani, di essere cittadini di serie B; un sentimento che spinge molti a rimanere nascosti nella foresta e comunque lontani da casa. Per questo motivo, i cristiani stanno cercando di coinvolgere gruppi e organizzazioni della società civile nella loro battaglia e acquisire così visibilità anche sul versante politico. Operazione tutt’altro che facile in un Paese che, a ragione, viene dipinto come la più grande democrazia del mondo, ma che non ha ancora vinto due battaglie fondamentali per poter essere annoverato a pieno titolo fra i Grandi della Terra: la sconfitta della fame (che ancor oggi semina morte in molte zone rurali, con tassi di denutrizione peggiori di quelli dell’Africa sub-sahariana) e, appunto, la sfida del pluralismo autentico, della libertà religiosa compiuta. Sono passati oltre 15 anni dalla pubblicazione di un velenoso libro, a firma di un noto saggista indù, Arun Shourie, nel quale si accusavano i missionari di forzare le conversioni, creando tensione sociale e distruggendo l’identità induista. Ma in molti ambienti quest’idea rimane radicata anche oggi. Accompagnata sovente da un indiscusso corollario (indiano uguale indù), premessa tacita di tensione e violenza. L’India gigante economico di prima grandezza, che vede il Pil crescere al ritmo del 9% l’anno, che straccia i primati mondiali per immatricolazione di nuove auto, l’India di Bollywood e di Bangalore, si trova alle prese, ancora una volta, con una delle questioni più brucianti e cruciali del suo presente e della sua stessa storia: la convivenza pacifica tra diverse fedi e diversi gruppi sociali. Una convivenza alla cui base, ricorda Benedetto XVI, non può non esserci la libertà religiosa, «via alla pace», come suona il titolo della prossima Giornata Mondiale della Pace. «No More Kandhamal» («Non più Kandhamal»), gridano in questi giorni gli attivisti per i diritti umani e la tutela delle minoranze. Ci uniamo idealmente a quel coro, nella speranza che, sulle orme di Gandhi, l’India riscopra la sua anima più profonda e vera, che è capace di "ospitare" persone di culture e religioni diverse.