domenica 20 marzo 2011
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All’ultima ora, dopo un mese di tenten­namenti e rinvii di fronte alla crisi libi­ca, quando ormai Gheddafi sembrava esse­re sul punto d’averla vinta sui ribelli, la comunità internazionale reagisce con un’im­provvisa e drammatica accelerazione. Non c’è dubbio che i raid aerei sulla Libia, inizia­ti ieri sera dopo il via libera deciso dal verti­ce di Parigi, costituiscano un vero e proprio atto di guerra. Ma è la risposta alla guerra che il regime sanguinario di Gheddafi ha scate­nato contro il suo popolo. Se anche Bengasi, città simbolo della rivolta e ultima roccafor­te degli insorti, cadesse nelle mani del raìs, sa­remmo posti di fronte non solo alla sconfit­ta di coloro che in Libia chiedono libertà e democrazia ma a una tragica battuta d’arre­sto per tutti quei movimenti che hanno dato vita alla primavera del mondo arabo.A differenza delle guerre più recenti (contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e contro la Serbia di Milosevic nel 1999), l’intervento mi­litare contro Gheddafi ha avuto l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed è stato pre­disposto con l’assenso della Lega Araba che sul destino della Libia ha legittimamente qualcosa da dire. Un sussulto doveroso ma tardivo che fa seguito a uno scandaloso at­tendismo, nutrito di previsioni tanto ottimi­stiche quanto erronee sull’imminente cadu­ta del dittatore di Tripoli. Il brusco risveglio degli ultimi giorni, dovuto alla controffensiva vittoriosa di Gheddafi, ha provocato un’affannosa corsa ai ripari. Il più svelto è stato Sarkozy che, dopo aver ricono­sciuto come unico legittimo interlocutore in Libia il Comitato nazionale degli insorti, ha a­gitato la bandiera dell’interventismo, allo sco­po di cancellare il passato legame coi dittato­ri del Maghreb e di rilanciare la grandeur fran­cese nel Mediterraneo, scommettendo su van­taggiosi accordi petroliferi con il futuro go­verno libico. Sarkozy ha l’appoggio di Obama, e soprattutto ha trovato un decisivo alleato nel premier britannico Cameron, mentre la Ger­mania della Merkel si è defilata. In mezzo c’è l’Italia che ha aderito alla linea interventista con poca convinzione e con una grande preoc­cupazione: quella di essere esposta, più di o­gni altro Paese, alle rappresaglie del Colon­nello che potrebbe reagire come già fece nel 1986 dopo l’attacco aereo ordinato da Reagan contro il suo bunker a Tripoli, quando lanciò due missili contro Lampedusa.Quella che è iniziata alle porte di casa nostra è dunque una guerra animata dal nobile mo­tivo dell’ingerenza umanitaria ma non esen­te da ombre e da rischi. Assomiglia molto al­l’intervento militare della Nato contro Milo­sevic nel 1999. Anche lì si trattava di difende­re una popolazione civile, quella kosovara, dal­le brutalità e dai crimini delle milizie serbe. I bombardamenti aerei della Nato andarono a­vanti per due mesi, Milosevic fu costretto a ce­dere il Kosovo ma restò al potere a Belgrado per oltre un anno. Potrebbe finire allo stesso mo­do, con una Libia spaccata in due e un Ghed­dafi saldamente in sella a Tripoli. Ma non tut­ti i dittatori sono uguali, e il «cane rabbioso» della Libia, come l’aveva definito Reagan, po­trebbe tornare a mordere e a far male.I suoi propositi di vendetta non ci devono in­timidire. Ma non possiamo neppure sottova­lutarli. L’Italia si trova in prima linea, a motivo della geografia e ancor più della storia, e non deve aver paura di assumersi tutte le sue re­sponsabilità, facendosi carico di una sincera preoccupazione umanitaria a favore del po­polo libico, dei tanti residenti stranieri e dei profughi purtroppo previsti. È questa la ragio­ne dell’intervento militare, non dimentichia­molo. Da oggi entriamo in un territorio domi­nato da molte incognite. Dobbiamo essere pronti a ogni eventualità anche perché, come diceva von Clausewitz, «le guerre non finisco­no mai come prevedeva chi le ha iniziate».
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