All’ultima ora, dopo un mese di tentennamenti e rinvii di fronte alla crisi libica, quando ormai Gheddafi sembrava essere sul punto d’averla vinta sui ribelli, la comunità internazionale reagisce con un’improvvisa e drammatica accelerazione. Non c’è dubbio che i raid aerei sulla Libia, iniziati ieri sera dopo il via libera deciso dal vertice di Parigi, costituiscano un vero e proprio atto di guerra. Ma è la risposta alla guerra che il regime sanguinario di Gheddafi ha scatenato contro il suo popolo. Se anche Bengasi, città simbolo della rivolta e ultima roccaforte degli insorti, cadesse nelle mani del raìs, saremmo posti di fronte non solo alla sconfitta di coloro che in Libia chiedono libertà e democrazia ma a una tragica battuta d’arresto per tutti quei movimenti che hanno dato vita alla primavera del mondo arabo.A differenza delle guerre più recenti (contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e contro la Serbia di Milosevic nel 1999), l’intervento militare contro Gheddafi ha avuto l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed è stato predisposto con l’assenso della Lega Araba che sul destino della Libia ha legittimamente qualcosa da dire. Un sussulto doveroso ma tardivo che fa seguito a uno scandaloso attendismo, nutrito di previsioni tanto ottimistiche quanto erronee sull’imminente caduta del dittatore di Tripoli. Il brusco risveglio degli ultimi giorni, dovuto alla controffensiva vittoriosa di Gheddafi, ha provocato un’affannosa corsa ai ripari. Il più svelto è stato Sarkozy che, dopo aver riconosciuto come unico legittimo interlocutore in Libia il Comitato nazionale degli insorti, ha agitato la bandiera dell’interventismo, allo scopo di cancellare il passato legame coi dittatori del Maghreb e di rilanciare la grandeur francese nel Mediterraneo, scommettendo su vantaggiosi accordi petroliferi con il futuro governo libico. Sarkozy ha l’appoggio di Obama, e soprattutto ha trovato un decisivo alleato nel premier britannico Cameron, mentre la Germania della Merkel si è defilata. In mezzo c’è l’Italia che ha aderito alla linea interventista con poca convinzione e con una grande preoccupazione: quella di essere esposta, più di ogni altro Paese, alle rappresaglie del Colonnello che potrebbe reagire come già fece nel 1986 dopo l’attacco aereo ordinato da Reagan contro il suo bunker a Tripoli, quando lanciò due missili contro Lampedusa.Quella che è iniziata alle porte di casa nostra è dunque una guerra animata dal nobile motivo dell’ingerenza umanitaria ma non esente da ombre e da rischi. Assomiglia molto all’intervento militare della Nato contro Milosevic nel 1999. Anche lì si trattava di difendere una popolazione civile, quella kosovara, dalle brutalità e dai crimini delle milizie serbe. I bombardamenti aerei della Nato andarono avanti per due mesi, Milosevic fu costretto a cedere il Kosovo ma restò al potere a Belgrado per oltre un anno. Potrebbe finire allo stesso modo, con una Libia spaccata in due e un Gheddafi saldamente in sella a Tripoli. Ma non tutti i dittatori sono uguali, e il «cane rabbioso» della Libia, come l’aveva definito Reagan, potrebbe tornare a mordere e a far male.I suoi propositi di vendetta non ci devono intimidire. Ma non possiamo neppure sottovalutarli. L’Italia si trova in prima linea, a motivo della geografia e ancor più della storia, e non deve aver paura di assumersi tutte le sue responsabilità, facendosi carico di una sincera preoccupazione umanitaria a favore del popolo libico, dei tanti residenti stranieri e dei profughi purtroppo previsti. È questa la ragione dell’intervento militare, non dimentichiamolo. Da oggi entriamo in un territorio dominato da molte incognite. Dobbiamo essere pronti a ogni eventualità anche perché, come diceva von Clausewitz, «le guerre non finiscono mai come prevedeva chi le ha iniziate».