sabato 11 dicembre 2010
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Una sedia vuota sul palco di un piccolo Paese nord-europeo ha fatto tremare gli scranni dei potenti che governano la nazione più grande del mondo. Sul palco di Oslo, a ritirare il premio Nobel per la Pace 2010, doveva esserci Liu Xiaobo, il dissidente di Pechino promotore di un manifesto per i diritti umani, condannato a undici anni di prigione dal regime cinese e rinchiuso in un carcere della Manciuria. Era già successo che il candidato al prestigioso riconoscimento non potesse recarsi nella capitale norvegese, "trattenuto" in Unione Sovietica come Andrej Sacharov nel 1975, o in Polonia come Lech Walesa nel 1983. Nel segno di un’ipocrita benevolenza quei regimi comunisti avevano però acconsentito che fossero le mogli a ritirare il premio.La Cina del capitalismo rampante e del comunismo perdurante è riuscita a fare di peggio, impedendo anche alla moglie di Liu Xiaobo, agli arresti domiciliari, come pure ai suoi amici e compagni di lotta, costantemente sotto minaccia, di presenziare alla cerimonia di Oslo. E così quest’anno il Premio Nobel per la pace non si è potuto consegnare ed è stato deposto simbolicamente su una sedia vuota. Come nel lontano 1936, quando il vincitore languiva in una prigione della Germania nazista. Non è proprio un bell’accostamento per il Paese che ha eretto una Grande Muraglia d’intimidazioni e censure attorno al Nobel per la pace assegnato per la prima volta ad un esponente del dissenso cinese. Pechino ha reagito all’evento con un furore che a prima vista appare decisamente esagerato e incomprensibile. "Charta 08", il manifesto per la libertà stilato da Liu Xiaobo e da altri intellettuali, è stato sottoscritto da dodicimila persone, una goccia nell’oceano di un miliardo e trecento milioni di cinesi. Pochissimi di loro conoscono il vincitore del Premio Nobel contro cui si sono scatenati gli eredi di Mao che hanno fatto di tutto in queste settimane per screditare la giuria e la cerimonia di Oslo, minacciando la Norvegia di sanzioni economiche e gridando al complotto internazionale. Una furibonda reazione che tradisce la paura del regime comunista di fronte ad un cittadino che si limita a reclamare con metodi non violenti il rispetto dei diritti umani garantiti dalla stessa Costituzione votata nel 2004 dal parlamento cinese. E’ il potere dei senza potere, teorizzato da Havel in "Charta 77" e ripreso dal manifesto di Liu, il fantasma che inquieta i burocrati rossi di Pechino. Il loro nervosismo si è manifestato in questi giorni anche nei confronti dei cattolici con una serie di atti di forza per ricondurre i vescovi cinesi all’obbedienza verso l’Associazione Patriottica, l’organo di controllo statale sulla Chiesa. E la loro arroganza non ha avuto confini, premendo su molti Paesi perché boicottassero la cerimonia del Nobel. E così sul palco di Oslo è andata in scena la rappresentazione del contrasto che divide il mondo globalizzato fra chi crede nella libertà come valore universale e chi la immiserisce restringendola al suo significato economico. 18 Paesi, oltre la Cina, si sono rifiutati di rendere omaggio al Nobel per la pace 2010. Nell’elenco compaiono dittature come Cuba e Venezuela, ma anche Afghanistan ed Iraq (dove si sono fatte le guerre per «esportare la democrazia»!). E c’è anche la Russia che tradisce la memoria della nazione e gira le spalle ai grandi dissidenti come Sacharov e Solgenitsyn. Una decisione che svergogna Putin molto più delle rivelazioni di Wikileaks. Attorno alla sedia vuota di Oslo il mondo è tornato a dividersi. E come nell’antica fiaba è diventato evidente che l’imperatore di Pechino è nudo ed è ora che corra ai ripari.
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