venerdì 10 aprile 2009
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Era tutto pronto per il Venerdì santo. L’antica processione del Cristo­morto legata ad una tradizione anti­chissima era pronta per sfilare nelle stra­de. All’Aquila era stata ripresa dai frati francescani di San Bernardino. Erano pronte le Confraternite cittadine per il mesto corteo lungo le strade buie e si­lenziose della città. Enti e associazioni di pubblica rilevanza erano pronti per la scorta al simulacro di Cristo. Erano pronti i cori e le orchestre di violini per elevare l’accorata preghiera del «Mise­rere» di Solecchi maestro abruzzese. Quella struggente melodia cantata sol­tanto dalle voci maschili e sorretta dal suono di centocinquanta violini. Il po­polo era pronto per ascoltare la poten­za corale e la dolcezza melodica che crea un’atmosfera di profonda mestizia – co­me disse D’Annunzio – da far scaturire «una fontana di lacrime». Erano pronti per ascoltare «Miserere mei, Deus, se­cundum magnam misericordiam tuam». C’era la paura legata alle scosse di ter­remoto ma nessuno poteva immagina­re il disastro e l’anticipo del Venerdì san­to dopo la Domenica delle Palme. L’Abruzzo è martoriato. I paesini arroc­cati tra il Velino e il Gran Sasso feriti nel­le loro abitazioni, nei loro vicoli, nelle lo­ro piazze e soprattutto nelle loro chie­se. L’Aquila è sventrata come in una guerra, vede sferzati dipinti e chiese, li­bri e documenti: 750 anni di storia can­cellati in pochi secondi. Il Venerdì santo si materializza in tutta la provincia con una processione cari­ca di dolore: senza chiese e senza figu­ranti. Ognuno soffre in silenzio senza capire il destino. Il grido di disperazio­ne di un giornalista locale dà il senso di questo dolore: «Non sono riuscito a sal­vare i miei due figli. Trent’anni di sacri­ficio cancellati in un attimo. Non ho più nulla. Adesso non ha più senso conti­nuare a vivere». Di fronte al grido di do­lore di un uomo c’è da domandar tut­to. Domanda o mendicanza a Cristo presente in questo Venerdì santo anti­cipato. Il compimento del destino per­sonale e di un popolo passa attraverso la via misteriosa della croce. È straordi­naria la grande umanità e la grande solidarietà. È difficile descrivere l’impe­gno di quelli che continuano a scavare a mani nude. Ma questo Venerdì santo che sfila per le strade chiede ragioni so­lide per continuare a vivere, a ricostruire e a sperare. La paura in questo Venerdì santo ha av­volto la carne e la psiche di tutti. Tutto darebbe ragione a una notte senza do­mani. Tutto darebbe ragione allo scan­dalo di una sofferenza senza senso. E­ra necessario che il popolo facesse e­sperienza del Venerdì santo senza rap­presentarlo. Era necessario che il po­polo recuperasse il senso della morte e della vita con i suoi morti innocenti. E­ra necessario che il popolo iniziasse a balbettare: «Di tutto io sono capace in Colui nel quale è la mia forza». Questo è il conforto del popolo in questa tragi­ca circostanza. Il dolore diventa il filo con cui la stoffa del popolo abruzzese è ritessuta. La prova più grande della vita, cioè del­la speranza sarebbe la morte, se Cristo non fosse risorto. La prova più grande sarebbe l’addio di tanti innocenti, se Cri­sto non fosse risorto. Allora niente di­sperazione. Non abbiamo più nulla da temere dalla morte, dalla paura, dalle macerie, dalle scosse, dal fatto che non si ha più una casa da quando Cristo è ri­sorto da morte. Da qui riparte la spe­ranza di un popolo in ginocchio. E, in questa speranza, la tenacia concreta di tutto l’aiuto operativo che si può dare. Ci sono migliaia di persone ospitate da famiglie che hanno dato la loro dispo­nibilità. C’è il desiderio e la voglia di con­dividere questo momento di bisogno. Si riparte dal culmine di prove di questi giorni per sostenere ognuno ad accet­tare il Mistero di Dio prima trafitto tra le macerie e poi risorto.
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