Era tutto pronto per il Venerdì santo. L’antica processione del Cristomorto legata ad una tradizione antichissima era pronta per sfilare nelle strade. All’Aquila era stata ripresa dai frati francescani di San Bernardino. Erano pronte le Confraternite cittadine per il mesto corteo lungo le strade buie e silenziose della città. Enti e associazioni di pubblica rilevanza erano pronti per la scorta al simulacro di Cristo. Erano pronti i cori e le orchestre di violini per elevare l’accorata preghiera del «Miserere» di Solecchi maestro abruzzese. Quella struggente melodia cantata soltanto dalle voci maschili e sorretta dal suono di centocinquanta violini. Il popolo era pronto per ascoltare la potenza corale e la dolcezza melodica che crea un’atmosfera di profonda mestizia – come disse D’Annunzio – da far scaturire «una fontana di lacrime». Erano pronti per ascoltare «
Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam». C’era la paura legata alle scosse di terremoto ma nessuno poteva immaginare il disastro e l’anticipo del Venerdì santo dopo la Domenica delle Palme. L’Abruzzo è martoriato. I paesini arroccati tra il Velino e il Gran Sasso feriti nelle loro abitazioni, nei loro vicoli, nelle loro piazze e soprattutto nelle loro chiese. L’Aquila è sventrata come in una guerra, vede sferzati dipinti e chiese, libri e documenti: 750 anni di storia cancellati in pochi secondi. Il Venerdì santo si materializza in tutta la provincia con una processione carica di dolore: senza chiese e senza figuranti. Ognuno soffre in silenzio senza capire il destino. Il grido di disperazione di un giornalista locale dà il senso di questo dolore: «Non sono riuscito a salvare i miei due figli. Trent’anni di sacrificio cancellati in un attimo. Non ho più nulla. Adesso non ha più senso continuare a vivere». Di fronte al grido di dolore di un uomo c’è da domandar tutto. Domanda o mendicanza a Cristo presente in questo Venerdì santo anticipato. Il compimento del destino personale e di un popolo passa attraverso la via misteriosa della croce. È straordinaria la grande umanità e la grande solidarietà. È difficile descrivere l’impegno di quelli che continuano a scavare a mani nude. Ma questo Venerdì santo che sfila per le strade chiede ragioni solide per continuare a vivere, a ricostruire e a sperare. La paura in questo Venerdì santo ha avvolto la carne e la psiche di tutti. Tutto darebbe ragione a una notte senza domani. Tutto darebbe ragione allo scandalo di una sofferenza senza senso. Era necessario che il popolo facesse esperienza del Venerdì santo senza rappresentarlo. Era necessario che il popolo recuperasse il senso della morte e della vita con i suoi morti innocenti. Era necessario che il popolo iniziasse a balbettare: «Di tutto io sono capace in Colui nel quale è la mia forza». Questo è il conforto del popolo in questa tragica circostanza. Il dolore diventa il filo con cui la stoffa del popolo abruzzese è ritessuta. La prova più grande della vita, cioè della speranza sarebbe la morte, se Cristo non fosse risorto. La prova più grande sarebbe l’addio di tanti innocenti, se Cristo non fosse risorto. Allora niente disperazione. Non abbiamo più nulla da temere dalla morte, dalla paura, dalle macerie, dalle scosse, dal fatto che non si ha più una casa da quando Cristo è risorto da morte. Da qui riparte la speranza di un popolo in ginocchio. E, in questa speranza, la tenacia concreta di tutto l’aiuto operativo che si può dare. Ci sono migliaia di persone ospitate da famiglie che hanno dato la loro disponibilità. C’è il desiderio e la voglia di condividere questo momento di bisogno. Si riparte dal culmine di prove di questi giorni per sostenere ognuno ad accettare il Mistero di Dio prima trafitto tra le macerie e poi risorto.