La Messa è finita e, prima di andare in pace, si ascoltano gli avvisi. Succede in tutte le parrocchie d’Italia e succede anche nelle tendopoli del terremoto abruzzese. La singolarità della scena aquilana risiede nel fatto che, domenica mattina, a prendere la parola al termine della celebrazione eucaristica presieduta dal segretario generale della Cei non è stato lo stesso monsignor Crociata e neppure un sacerdote di Pile, l’area industriale su cui sorge la tendopoli Sandro Pertini, bensì un funzionario della Protezione civile. Nel momento in cui ogni parroco avrebbe ricordato a che ora si ritroveranno i catechisti o quando si terranno le prove della corale, l’ingegnere di Palazzo Chigi ha spiegato perché lo sciame sismico fa ancora paura, che ogni abitazione del capoluogo va abbandonata, come avverranno le verifiche sulla statica degli edifici e che non tutte le strutture dovranno essere abbattute... La stessa scena si ripeterà in tutte le tendopoli. Per la Protezione civile questi avvisi al termine della Messa costituiscono uno strumento di comunicazione imprescindibile: i bollettini cartacei non basterebbero a raggiungere tutti; in un campo di sfollati in cui ricaricare il cellulare è un problema non ci si può certo affidare alla tv o al web. Si capisce perché, allora, una tenda venga immancabilmente adibita a sala della comunità: nessun collateralismo, nessuna confusione di ruoli, è il segno di una tensione comune che scaturisce da una comunanza di progetto. In altre parole, quando si tratta di salvare una comunità, fatta di vite e di relazioni, di benessere materiale e spirituale, Stato e Chiesa si scrollano di dosso le zavorre di discussioni infinite e si ritrovano al punto di partenza, all’essenziale della loro missione: il bene della Res Publica, che è anche il bene di ciascun terremotato, e l’attenzione alla persona. Il rispetto per i ruoli, che non è in discussione, significa anche riconoscimento delle specifiche potenzialità. Monsignor Crociata ha sottolineato che la Chiesa italiana è 'presente' all’Aquila. Lo è con i suoi pastori, i quali, fin dalle ore del batticuore e del groppo in gola, hanno parlato di speranza, hanno invitato a rimboccarsi le maniche, hanno predicato la vicinanza alle popolazioni colpite dal sisma e l’hanno praticata, fino a dormire in una tenda, come tutti. La Chiesa è presente in queste terre prostrate con i suoi preti, religiosi e religiose, che fanno argine alla disperazione, incontrando gli spauriti, confessando i dubbiosi, consolando famiglie monche e inconsolabili. Hanno paura anche loro, poiché sono uomini e donne, ma parlano di futuro. La Chiesa è presente con la Caritas, che lancia oggi i suoi gemellaggi e intende accompagnare per lungo tempo la ricostruzione morale e materiale. E con associazioni e movimenti che si rendono presenti in tante, concrete modalità. Quella della Chiesa è una vicinanza caleidoscopica, che porta a vedere il problema, e ad affrontarlo, sotto le luci più diverse. Non meramente assistenziali, né solo spirituali: vestiti e scatolette, psicologi e animatori, ma anche nuove scuole, centri di comunità e chiese, le tante chiese dell’Aquilano da restaurare o da ricostruire. Le vie della condivisione sono infinite. Una delle più importanti passa per questa collaborazione silente, spontanea, naturale perché necessaria, con la Protezione civile e i corpi dello Stato. Un funzionario che legge un avviso alla fine della Messa segnala uno stile di governo delle emergenze che non si alimenta di interviste o dibattiti televisivi, accantona con un sorriso ogni astio ideologico e guarda in una direzione sola: salvare l’uomo e la sua civiltà. Quando il progetto è questo, la Chiesa c’è.