Il suo settore finanziario è sopravvissuto alla crisi che ha devastato le economie asiatiche alla fine degli anni Novanta. Il suo turismo, uno dei più fiorenti al mondo (il settore dei servizi vale il 44% del Pil), ha resistito persino allo tsunami del 2004. Ma il suo assetto sociale potrebbe crollare di fronte a un problema di cui si discute da anni: la non lontanissima successione di un re, Bhumibol Adulyadej il Grande, che siede sul trono dal 1946 (record mondiale assoluto) e proprio in questi giorni compie 81 anni. La Thailandia vive di questo paradosso, al punto di annegare in esso anche uno scontro sociale che rischia di diventare drammatico. L’esito delle ultime manifestazioni (il partito del Potere del Popolo, al governo, sciolto d’imperio dalla Corte Costituzionale, che ha anche interdetto per 5 anni dai pubblici uffici il premier Somchai Wongsawat) rischia di essere scambiato per una vittoria della società civile. Non è così, o meglio: è la vittoria di una sola parte della società, la più ricca di potere e privilegi, quella appunto che vede nella monarchia e nell’esercito i migliori garanti del proprio predominio. Il Pad, ovvero l’Alleanza popolare per la Democrazia, che ha organizzato i disordini di quest’ultimo periodo e l’occupazione degli aeroporti, rappresenta la borghesia moderna e produttiva di Bangkok, gli alti gradi della burocrazia statale, gli ufficiali dell’esercito e le loro famiglie. Certo, le menti del boom thailandese (il Paese è cresciuto del 4,5% nel 2007) ma anche i soggetti più preoccupati dalle dinamiche socio-economiche della crescita. La prosperità del Paese è trainata, negli ultimi anni, soprattutto dall’agricoltura e dalle esportazioni (più 17% nel 2006 e più 12% nel 2007) legate alla fabbricazioni di componenti per l’industria dell’automobile. Settori in cui scarseggiano i rampolli della buona borghesia, impegnata piuttosto a proteggere i propri affari, come dimostra la serie di leggi e norme emesse per regolare, e soprattutto limitare, la libertà di manovra degli investitori esteri. Non c’è da stupirsi, dunque, di quanto regolarmente avviene. I partiti e i leader (ieri Thaksin Shinawatra, oggi suo cognato Somchai Wongsawat) che più promettono alla popolazione delle campagne e delle province, fatta di contadini e operai, vincono le elezioni. Poi, però, non riescono a governare non avendo l’appoggio della borghesia urbana. Al dunque, l’esercito si schiera con questa (come nel 2006, all’epoca del colpo di Stato contro Thaksin) e il sovrano "copre" l’esercito con il prestigio della corona. Per questo l’eventuale successione a re Bhumibol il Grande non solo è attesa con ansia ma diventa essa stessa occasione d’instabilità, visto che le diverse forze e fazioni si battono per mantenere o accrescere le proprie posizioni in vista del momento fatale. Non si tratta, ovviamente, di tifare per questa o quella parte, di stare con i borghesi della Borsa o con i proletari delle fabbriche. Gli uni e gli altri hanno buone ragioni e validi pretesti. Resta però il fatto che un’economia dinamica come quella thailandese reclama un equilibrio sociale più solido, una redistribuzione della ricchezza più armonica e un assetto istituzionale che non sia costretto, un anno sì e uno no, a chiedere l’intervento dei soliti generali. Categoria del tutto rispettabile ma abituata a decidere e incline, almeno in certe parti del mondo, a farlo anche per chi non sa più farlo. E il giorno in cui venisse a mancare anche il re dei record cadrebbe anche l’ultima garanzia.