«Già Paolo VI aveva riconosciuto e indicato l’orizzonte mondiale della questione sociale. Seguendolo su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75). Questa affermazione ci sembra riassumere bene la linea di fondo della nuova enciclica sociale. Benedetto XVI riprende il filo della Populorum progressio (1967) di Paolo VI, a cui dedica il primo capitolo, aggiornando il significato del suo tema principale, lo sviluppo: la nuova enciclica afferma con convinzione l’attualità dell’idea e insieme la sua nuova portata antropologica. Si direbbe che tutto lo sforzo dell’enciclica è di mostrare la ragionevolezza di coniugare in modo nuovo tecnica, economia e politica con una sapienza e una saggezza sull’umano senza le quali nessuno dei grandi problemi contemporanei può essere affrontato oggi con buon esito. «Lo sviluppo – dice il testo verso la fine – è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune» (71). Non si tratta, dunque, solamente di accompagnare o integrare l’economia e la finanza con qualche discorso morale, ma più radicalmente di avviare «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini» (n. 32), con una nuova coscienza dell’impegno antropologico che la prassi e la teoria economica portano in sé. Cosa evidentemente di enorme portata e di così difficile attuazione per il condizionamento degli interessi in gioco e per il peso della tradizione scientifica dell’economia improntata a un’idea dell’homo oeconomicus , così distante da quella delineata da Benedetto XVI. Ma il Papa non teme di sfidare la difficoltà, perché la drammaticità e l’urgenza delle situazioni, che richiama lungo la sua Lettera, chiedono operazioni culturali forti e coraggiose. L’età della globalizzazione – dice in vario modo il testo – rimette in gioco globalmente il senso dell’uomo e le nostre categorie culturali con cui pensare la totalità dell’umano in questione. Non solo, ma il motivo primo dell’audacia papale è nella visione di fede che egli ripropone, rilanciando l’idea della dottrina sociale della Chiesa come sapienza, ricca di molteplice sapere (teologico, filosofico, scientifico) a servizio dell’uomo; esercizio di un «amore ricco di intelligenza» e di «intelligenza piena di amore» (n. 30). Il titolo dell’enciclica è in questo senso programmatico: «carità nella verità » è la sintesi di un esercizio dell’antropologia cristiana di cui parla con intensità l’Introduzione. A fondamento sta l’idea del Dio cristiano come Logos e come Agape, che papa Benedetto ha riproposto fin dall’inizio del suo pontificato, e che qui mostra in modo sistematico il suo significato per la vita storica dell’uomo alle prese con i problemi della nuova sociale mondiale. «Dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende»: l’enciclica chiede di porre qui l’angolo visuale con cui guardare alla vita sociale, nella consapevolezza che questo non estranea dai problemi, ma al contrario fornisce l’unica prospettiva entro cui la totalità dell’uomo può essere davvero vista. Una carità nel senso autentico del termine cristiano e quindi coniugata con la verità; anzitutto quella donata da Dio e manifestata in Cristo. Anche questo porre all’inizio la «carità nella verità» va contro corrente rispetto alla tendenza – pur valida a un certo livello – di trattare le questioni sociali nel modo meno confessionale possibile, anche per un giusto tentativo di dialogo pubblico su di esse. Qui è proposto un certo rovesciamento della prospettiva: la carità nella verità come punto di partenza – non solo come motivazione ma anche come concezione (quella articolata dalla Dottrina sociale cristiana) – non è una limitazione di campo, ma al contrario spalancamento teorico e pratico, orizzonte entro cui lavorare con chiunque abbia a cuore le sorti storiche dell’uomo, sostenuti da un patrimonio di dottrina che ama la verità dell’uomo.