Finalmente sono state liberate. Dopo centodue giorni di cattività Caterina Giraudo e Maria Teresa Olivero hanno potuto lasciare Mogadiscio dove erano tenute in ostaggio. Dobbiamo ammetterlo con franchezza: il pur comprensibile e legittimo silenzio stampa, richiesto sia dalla Farnesina come dai loro parenti e amici, rischiava di sfociare in una sorta d’involontaria rassegnazione. Eravamo un po’ tutti ingrigiti nel troppo tempo esigito dall’odissea di queste due religiose, per le quali si temeva si stesse innescando una sorta di arrendevolezza insopportabile. Insomma, non ci si poteva affrancare facilmente dal pensiero che due donne del loro calibro, consacrate a Dio per la causa del Regno, potessero sperimentare il sacrificio estremo soltanto perché avevano osato fare la scelta di stare a fianco degli ultimi, di coloro che sono «crocifissi dalla storia» in una remota periferia africana. Lo dicevamo non per far durare il rancore nei confronti degli aguzzini che le avevano strappate con la forza il 9 novembre scorso dalla missione di El-Wak, ma per esprimere una lamentazione che invocava la misericordia, quella che in queste ore diventa davvero un inno alla vita. In realtà, ci si può scrollare del passato fatto di dolori e privazioni, solo rileggendo il tempo della lunga prigionia alla luce della speranza cristiana che anima i credenti. Con la loro liberazione tutto, oggi, è un po’ più possibile rispetto ai mali che ci assillano e sarebbe davvero un guaio se le grandi agenzie del 'significato', poco importa se giornalistiche o letterarie, cui spetta di tenere viva la memoria, lasciassero cadere nel dimenticatoio quanto è accaduto a queste nostre due sorelle. Anzitutto, perché il loro coraggio rende onore all’Italia e soprattutto alla nostra Chiesa che le ha generate affidando loro un esplicito mandato missionario. E dal momento che non è possibile zittire «la voce di chi non ha voce», in questa circostanza il pensiero 'cattolico', cioè 'universale' è rivolto al disastrato popolo somalo, venuto frammentariamente alla ribalta in occasione di questo sequestro. Un Paese dimenticato, in preda a barbarie d’ogni genere, dove oltre tre milioni di sfollati sopravvivono in condizioni subumane all’addiaccio e nella più squallida miseria. Secondo alcuni, di fronte a questo scenario infuocato, sarebbe in atto uno scontro che coinvolge l’identità complessiva della civiltà occidentale e quella islamica. Eppure, il messaggio del martire Charles Foucauld, cui fedelmente si ispira la famiglia missionaria delle due missionarie liberate, è di tutt’altro tono. Esse hanno declinato, animate dallo spirito del fondatore, la loro vita 'per tutti' e 'contro nessuno', nella consapevolezza che il Bene, prima o poi, prende il sopravvento sui fanatismi e gli orrori del nostro tempo. In questo senso Caterina e Maria Teresa sono state delle fedeli interpreti di un’innocenza rivendicata solo e unicamente attraverso il dettato evangelico. Non possiamo pertanto fare a meno di ricordare, col cuore e con la mente, tutti quei missionari e missionarie che testimoniano l’amore di Cristo ad ogni latitudine del Pianeta. Essi sono tutti lì, in prima fila, disseminati lungo la frontiera dell’emarginazione e del disagio. D’altronde, è bene rammentarlo, la frontiera è il 'locus' per eccellenza della 'missione' e coincide con quelle linee di faglia dove queste sentinelle della carità sono chiamate a difendere i diritti di tanta umanità dolente. Una cosa è certa: se a duemila anni dalla venuta del Cristo, avvengono ancora così tanti misfatti, dei quali la vicenda delle nostre due religiose rappresenta il paradigma, è segno che la voce della cristianità corre ancora per il deserto. Proprio come scriveva Giovanni Paolo II, nel prologo dell’enciclica Redemptoris Missio «La missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento».