Quella di domani, 4 giugno, potrebbe essere una data da ricordare. Barack Obama parlerà al mondo islamico dall’Università del Cairo e cercherà di segnare una svolta politica e culturale. Per il modo: un inedito appello diretto a un quinto della popolazione mondiale, quasi un 'discorso alla nazione' come quelli che i presidenti Usa di solito fanno ai concittadini americani. Poi per il luogo: l’Egitto che, come ha ricordato il Wall Street Journal, è il perno «di tre grandi cerchi concentrici: il mondo arabo, il mondo africano e il mondo islamico», oltre a essere da decenni in prima linea nello scontro tra islam moderato e islamismo radicale. Infine per l’oratore. Perché Obama, domani, sarà assai più che il presidente degli Stati Uniti. Agli occhi e alle orecchie del mondo intero sarà anche il figlio di un nero del Kenya e di una madre bianca che poi sposerà un indonesiano. L’ex ragazzino cresciuto a Giacarta, capitale del più popoloso Paese a maggioranza islamica del mondo. Il politico che si chiama Barack, con un richiamo alla benedizione ( barakh) araba e Hussein, in memoria dell’imam omonimo, figlio del califfo Ali e nipote di Maometto. Per i musulmani moderati sarà anche il nero diventato presidente della nazione che non troppi decenni or sono usava i neri come schiavi, la dimostrazione vivente che nell’America non si può vedere solo l’immutabile 'demone' che ossessiona i radicali islamici e riempie la loro propaganda. Barack Obama esibisce, e quasi ostenta, la mano tesa all’islam: l’ha mostrata il 20 gennaio nel discorso d’insediamento alla Casa Bianca («Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basata sull’interesse comune e sul reciproco rispetto»), il 20 marzo nel messaggio augurale per il capodanno dell’Iran, il 6 aprile nel discorso al Parlamento turco («Non siamo e non saremo mai in guerra con l’islam»). Sarebbe però sbagliato credere che le sue iniziative siano a senso unico. Anche nel mondo musulmano si percepisce una forte attesa. In parte dovuta alla semplice emozione del cambiamento (di tono, di atteggiamento, di propositi) tra Bush e Obama. Ma in parte basata su interpretazioni più raffinate e complesse, come nel caso della Lettera aperta ai leader del mondo contemporaneo firmata a Doha in gennaio da più di 300 esponenti islamici di 76 Paesi di tutti i continenti e diffusa proprio nel giorno dell’insediamento del presidente Usa. Proprio l’aspettativa del mondo musulmano costituisce, a ben vedere, il pericolo maggiore per Obama, perché il rischio di deluderne le attese è grande. Le masse si aspettano una svolta radicale, che non verrà. Gli intellettuali e i religiosi chiedono, più saggiamente, che gli Usa collaborino perché nei Paesi islamici si apra una nuova epoca di crescita economica, sviluppo civile, rispetto dei diritti umani, dialogo tra istituzioni e cittadini. E anche qui il capo della Casa Bianca può fare poche promesse, perché la politica Usa è bloccata tra l’inevitabile sostegno a presidenti e sovrani filo-occidentali, ma corrotti e autoritari, e l’inguaribile timore che di una democrazia nascente possano approfittare soprattutto gli estremisti, come in Algeria negli anni Novanta o come avrebbe potuto succedere nello stesso Egitto in uno qualunque degli ultimi decenni. E ieri è arrivata, puntuale, l’intimidazione via Internet di al-Zawahiri, numero due di al-Qaeda: «Dalla Casa Bianca solo messaggi di sangue». Domani servirà, insomma, una buona dose dell’Obama Magic, quel tocco che consente al presidente di nutrire ideali forti, però di trattarli con una buona dose di pragmatismo. Ma è già tutta un’altra strada. E molte grandi imprese sono cominciate con un bel discorso.