domenica 23 agosto 2009
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«Mettere le cose nero su bianco» recita un’espressione ricorrente nel nostro discettare che forse potrebbe aiutarci a ristabilire il giusto equilibro culturale con l’Africa, almeno dal punto di vista lessicale. Come rileva il congolese Jean Leonard Touadi, unico deputato 'afro' a sedere nel nostro Parlamento, si tratta del solo caso, nella lingua italiana, dove il termine 'nero' assume una valenza positiva. D’altronde, nell’immaginario collettivo nostrano, l’Africa è sempre associata a situazioni catastrofiche, ad emergenze umanitarie e più in generale a ogni sorta d’accidente. Basta dare un’occhiata ai notiziari televisivi per rendersi conto che, a parte le ricorrenti tragedie degli immigrati irregolari collocate nella 'cronaca nera', la simbologia cromatica in uso tra i giornalisti del Bel Paese è infarcita di 'giornate nere', poco importa se per colpa del crollo delle Borse o del traffico metropolitano e autostradale. Sta di fatto che la nostra gente è portata istintivamente a pensare che l’Africa sia davvero la metafora dei mali del mondo, per colpa soprattutto dei propri abitanti in balìa di guerre tribali istigate da famigerate oligarchie locali, violente per non dire prelogiche o primitive. La verità è che sappiamo poco o niente di quello che succede da quelle parti, per esempio in Somalia o nel Darfur, per non parlare dei rigurgiti di jihadismo nel settentrione della Nigeria. Chi, poi, tra gli analisti di questioni economiche è capace di spiegare ai lettori gli effetti della crisi finanziara sulla debolissima economia reale di un continente il cui computo complessivo del Pil è di poco superiore a quello della Spagna? E se certi mass media – invece d’indugiare sulle vicende sentimentali di George Clooney o tediare l’audience con servizi ripetitivi e quanto mai stucchevoli su come gli italiani trascorrono il ferragosto – spiegassero quali sono gli effetti della guerra fredda tra Etiopia ed Eritrea, forse non si resterebbe sorpresi di fronte all’ennesima mattanza sulle rotte della disperazione e di fronte alla morte di fame, di sete e di onde di 73 eritrei raccontata dai cinque superstiti soccorsi giovedì scorso a Lampedusa. Dal Corno d’Africa sempre in subbuglio al rebus dei Grandi Laghi, il continente sta pagando a caro prezzo gli errori commessi certamente dalle oligarchie locali, ma anche le ingerenze dei potentati stranieri che sfruttano con ingordigia inaudita, peraltro fomentando a dismisura la corruzione, le smisurate ricchezze del sottosuolo, fonti energetiche in primis. Ecco allora perché l’informazione rappresenta la prima forma di solidarietà nelle relazioni tra i popoli «con l’intento di decodificare – come scrive ancora Touadi – le scorie della storia coloniale e post coloniale, quei sedimenti d’incomprensione, quei misunderstanding di senso e di significato che hanno fuorviato per secoli i rapporti tra Europa e Africa». Dobbiamo in sostanza smetterla di elaborare ciascuno separatamente un sapere prevaricante sull’altro che non tenga conto, nel 'villaggio globale', dell’incontro in quanto manifestazione dell’alterità. A questo proposito è bene rammentare che nel corso del suo viaggio apostolico in Camerun e Angola, Benedetto XVI ha ricordato che vi sono degli aspetti davvero vitali nelle culture africane: il senso religioso, l’amore per la vita e l’attaccamento alla famiglia. Tutte dimensioni che ci possono aiutare a comprende quello che non si stancano mai di raccontare con passione e determinazione i nostri missionari e volontari: che la cooperazione tra Nord e Sud non consiste solo nel dare, ma anche nel saper ricevere. «Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore», scrive con schiettezza e lucidità lo scrittore nigeriano Chinua Achebe. Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa. Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita; non chiede beneficenza da parte di noi ricchi Epuloni, semmai invoca la partecipazione al 'bene comune' dei popoli. La sfida dunque tra noi e loro è innanzitutto e soprattutto culturale, per superare tout court la tentazione del pregiudizio.
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