Questi ultimi – lo ricordiamo – sono prove strutturate di italiano e matematica che vengono somministrate su scala nazionale ai ragazzi di seconda e quinta elementare, prima e terza media, seconda e (da quest’anno) quinta superiore. Lo scopo dell’Invalsi è quello di misurare i livelli raggiunti, affinché il ministero metta in atto iniziative adeguate per migliorare la situazione laddove essa appaia problematica. Ora, le polemiche sono comprensibili. Perché l’idea che quando i ragazzi vanno male a scuola debbano essere i loro maestri a frequentare dei corsi appare paradossale, illogica e anche demagogica. Demagogica perché va nella direzione di una deresponsabilizzazione della società e delle famiglie rispetto alle difficoltà scolastiche. È molto più comodo gettare la croce sulle spalle dei docenti, piuttosto che analizzare le questioni in maniera più ampia e approfondita. Per capire, ad esempio, che i docenti che insegnano in contesti socialmente degradati, culturalmente poveri ed economicamente depressi, incontreranno molti più problemi dei loro colleghi che lavorano nelle scuole dei Parioli a Roma o del centro di Milano. Senza che per questo siano meno bravi o preparati.
E, più in generale, paga far passare l’idea che se vai male a scuola, la colpa è dell’insegnante. Questa idea piace a quei genitori che vogliono sentirsi il più possibile deresponsabilizzati rispetto all’andamento scolastico dei loro figli. E piace anche a quei ragazzi che preferiscono non doversi trovare a rispondere in prima persona di performance negative. Ma si tratta di una visione profondamente diseducativa. Perché se nessuno nega che un maestro bravo e uno meno bravo possono determinare una differenza non trascurabile nei livelli di preparazione, è anche vero che man mano che l’età degli alunni avanza – soprattutto alle medie e alle superiori – l’età della ragione dovrebbe essere stata ampiamente raggiunta. E con essa dovrebbe essere assodata la capacità di compiere scelte consapevoli: studiare o non studiare, impegnarsi molto, così così o per niente.
Del resto il dirittodovere alla formazione in servizio (cioè all’aggiornamento) è già previsto per i docenti dal contratto collettivo nazionale. Peccato che negli ultimi anni la maggior parte delle iniziative di aggiornamento predisposte dal ministero e dagli uffici scolastici territoriali abbia riguardato soltanto la questione dell’informatizzazione della didattica e della burocrazia scolastica (lavagne interattive multimediali, libri di testo digitali, registro elettronico ecc.). Ci si è invece preoccupati molto poco di consentire agli insegnanti di aggiornarsi nelle proprie specifiche discipline. E anche quando i più motivati provano a farlo di propria iniziativa (per esempio chiedendo di partecipare a un convegno o a un seminario) i dirigenti spesso negano il permesso, perché, con le casse delle scuole praticamente vuote, sarebbe un problema pagare le ore di supplenza anche per un solo giorno di assenza.
Adesso leggiamo, sempre nel decretoscuola, che il governo ha deciso di destinare 10 milioni di euro, per tutto il 2014, all’aggiornamento dei docenti. Non è una cifra enorme, il punto sarà capire a cosa questi soldi verranno destinati. Obbligare un insegnante a frequentare un altro corso sulla pagella elettronica non migliorerà certo i livelli della preparazione dei suoi alunni. Per ottenere questo obiettivo è invece necessario motivare i docenti (sì, anche economicamente: invece il contratto è scaduto da tre anni e il rinnovo appare ancora lontano) e soprattutto potenziare la didattica (meno alunni per classe, condizione indispensabile per lavorare in maniera più efficace). Ma per fare queste cose occorrerebbero investimenti consistenti e decisioni coraggiose, a cui le scelte politiche degli ultimi anni in materia di istruzione sono sembrate decisamente poco propense.