martedì 22 aprile 2014
Serve un nuovo modo di gestire le disparità economiche.
di Vittorio E. Parsi
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Le prossime elezioni del Parlamento Europeo potrebbero essere le ultime che vedranno la partecipazione dei cittadini britannici. Entro il 2017, infatti, i sudditi di Sua Maestà dovrebbero esprimersi sull’opportunità di lasciare un’Unione che, peraltro, non hanno mai particolarmente amato e alla quale hanno aderito nel 1973, nella rassegnata consapevolezza che l’Impero era ormai tramontato da diversi lustri. Un’Europa dalla quale il Regno Unito si chiamasse fuori risulterebbe sicuramente indebolita nella sua statura internazionale e, oggi, non ne acquisterebbe neppure in termini di maggior coerenza. Così, mentre il presidente dell’Ucraina che cerca di liberarsi della pesante influenza russa si fa riprendere dalle telecamere in uno studio in cui la bandiera stellata della Ue fa bella mostra di sé accanto a quella nazionale, presto potremmo ritrovarci a dover considerare Londra una capitale "straniera", come Berna od Oslo. Sicuramente le ragioni finanziarie ed economiche non sono indifferenti rispetto alla possibile secessione della Gran Bretagna (peraltro a sua volta alle prese con la possibile devoluzione scozzese): Londra è oggi nuovamente una piazza finanziaria di primissimo piano oltre a essere la sola vera metropoli globale europea. E troppo spesso dimentichiamo come la Norvegia abbandonò l’Unione, di cui era da poco entrata a far parte, non appena si trasformò in un Paese produttore ed esportatore di petrolio. Ma non è l’economia il movente principale di una simile opzione. Semmai essa è ciò che rende possibile il desiderio di riacquistare una piena sovranità.
Per molto tempo l’irrequietezza britannica verso la partnership europea è stata liquidata come una forma di "particolarismo isolano", legato cioè alle vicissitudini estremamente peculiari che hanno caratterizzato la storia di questo grande Paese. Però, a ben guardare, l’insofferenza per una sovranità nazionale sempre più nominale e meno sostanziale si sta diffondendo a macchia d’olio, con una differenza, rispetto al passato: che mentre fino a pochi anni fa ciò che veniva lamentato era un’espropriazione delle prerogative sovrane da parte delle burocrazie tecnocratiche e sovranazionali di Bruxelles, oggi, sempre più spesso, sono il timore e la percezione del ritorno di una nuova gerarchia tra le sovranità nazionali all’interno dell’Unione ad alimentare la protesta e il disamore verso il "progetto europeo". Ed effettivamente gli anni che dal 2008 a oggi sono stati segnati dalla pesante crisi economica e finanziaria che ha attanagliato e ancora attanaglia molti Paesi europei – e che sul continente ha visto la sua manifestazione più devastante con il rischio di default del debito sovrano greco – sono stati quelli in cui abbiamo assistito al ritorno delle sovranità dentro l’Europa. Per dirla con una frase: il commissariamento della Grecia (con una sospensione della sua sovranità che a qualcuno ha ricordato le vicende storiche dell’Egitto del Kehdivé o dell’Impero Ottomano sul crinale tra Otto e Novecento) si rispecchia nella supremazia tedesca all’interno dell’Unione... Si tratta di una sensazione insieme paradossale e pericolosa: paradossale perché è proprio la riluttanza di Berlino ad assumere una più attiva leadership, il suo autocontenimento, che impedisce al crescente gap tra la Germania e gli altri Paesi membri di trasformarsi in una vera egemonia. Pericolosa, perché non dovrebbe mai essere scordato che il progetto europeo è nato proprio per regolare gli effetti dei differenziali di potenza tra gli Stati del continente. Nella storia europea, infatti, il modo attraverso il quale queste tensioni venivano regolate era la guerra. Ma il Novecento aveva dimostrato come quella modalità fosse ormai ingestibile. Da qui la spinta, ideale e pragmatica, a costituire una "Lega" il cui compito principale fosse quello di gestire le reciproche relazioni tra i suoi aderenti, in modo da evitare che le differenze nella potenza potessero causare timori, rivalità e conflitti.
Mettere insieme Paesi grandi e piccoli, vincolando le loro decisioni al principio dell’unanimità, costringeva i più potenti a ricercare il consenso dei partner minori, e in tal modo spingeva i primi all’autocontenimento e rassicurava i secondi. È in questo quadro che, nel corso dei decenni, è avvenuto il trasferimento delle quote di sovranità nazionale al nuovo soggetto europeo: le sovranità nazionali venivano cioè ad essere attenuate contemporaneamente alla loro gerarchia. A mano a mano che il club si è ampliato, e soprattutto con il Trattato di Nizza dell’11 dicembre 2000 – che, in vista dell’allargamento a Est, estendeva significativamente le questioni soggette al voto a maggioranza qualificata – la gerarchia delle sovranità è tornata ad affacciarsi, a volte attenuata a volte irrobustita dalle cosiddette geometrie variabili, che per effetto delle "cooperazioni rafforzate" finivano con l’esaltare o lo svalutare il capitale di voti detenuto da ogni Paese. È stato però con la crisi economica iniziata nel 2008 che la situazione è andata facendosi più complicata, in virtù del fatto che il Paese politicamente ed economicamente più potente, la Germania, era anche il solo che era stato capace di rimettere i propri conti in ordine: così che le manovre di rigore che l’Unione richiedeva ai propri membri producevano l’ampliamento del gap tra la virtuosa Germania e gli altri, rendendo la prima ancora più potente e gli altri sempre più dipendenti.
Se è giusto ricordare che proprio la Germania (insieme alla Francia) aveva preteso e ottenuto di sforare il rapporto deficit/Pil per poter risanare i conti senza schiantare la propria economia, occorre anche ribadire che, finora, la cancelliera Merkel è apparsa più che consapevole della "criticità" della supremazia tedesca e ha oggettivamente cercato in ogni occasione di limitarne le conseguenze più delicate. Resta però il fatto che non appare chiaro quale sia il meccanismo istituzionale previsto per riportare sotto controllo il ritorno prepotente della gerarchia di potenza in Europa, essendo peraltro del tutto evidente che, in politica internazionale, affidarsi alla buona volontà delle parti appare un esercizio decisamente audace persino per il periodo pasquale, che la tradizione vorrebbe associato appunto allo sfoggio di bontà.
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